LA SPOSINA DEL KILLER

I precedenti sono numerosi e nella maggior parte dei casi i protagonisti ben più famigerati (da una parte) e disturbati (dall’altra), rispetto alla storia di cui stiamo per parlare: gli elenchi li trovate sui quotidiani e potete ascoltarli nelle dirette tv di questi giorni, compresi i tg. Del resto, che una donna si innamori di un criminale fino al punto di sposarlo in carcere, continua a fare notizia: non è come quella dell’uomo che morde il cane, casomai di quello che lo lecca affettuosamente…

Non c’è bisogno di essere psicologi o psicanalisti per capire: basta una qualsiasi persona della strada come me e voi per immaginare che siamo di fronte a menti particolari, ad anime deviate. I meccanismi che arrivano ad ammaliare una libera cittadina inducendola a diventare la moglie di un assassino, per il resto sfuggono al senso e alla ragione.

Il caso di tale Laura Roffo, 28 anni, che ha scelto di convolare a nozze nel carcere di Civitavecchia (rito civile, ovviamente) con Mario Pincarelli, condannato – dopo 3 gradi di giudizio – a 21 anni per il brutale omicidio dell’adolescente Willy Monteiro Duarte a Colleferro, non è diverso dagli altri. Semplicemente contribuisce ad aumentare il mistero di queste scelte.

Laura ha conosciuto Mario vedendolo in tv a causa di quello che questo energumeno ha commesso 4 anni fa nei confronti di un fanciullo mingherlino e indifeso. In comune, in quel momento, lei e il novello sposo avevano un ampio scambio di corrispondenza e i tatuaggi, uno dei quali è apparso in bella vista quando è arrivata alla prigione per il rito d’amore: l’unica parte scoperta della signora Roffo in Pincarelli era infatti una coscia tatuata che sbucava dall’ampio spacco del vestito rosa, volto e tutto il resto nascosti da una giacca, un cappuccio, un golf, un velo… Intorno a lei qualche parente o conoscente, in particolare un uomo che ha creato un clima incandescente coi fotografi e i giornalisti presenti, culminato con insulti e sputi verso gli operatori della stampa.

Del resto, che ci facevano lì i paparazzi? Lei aveva già dichiarato a “Repubblica” – attraverso la legale dell’omicida – di essere innamorata e di non voler parlare con i media perché “non cerco la notorietà”. Ha assistito a qualche udienza del processo, ma non si arrende nemmeno alla condanna ribadita (come detto) in tutti i gradi di giudizio: “Credo a Mario, per me è innocente. Sono innamorata di lui e aspetterò che esca dal carcere”.

Dicevamo: è evidente che chi si innamora di un assassino (questa addirittura sostiene che non lo sia) abbia una percezione della realtà condizionata da demoni e fantasmi in lite tra di loro. Di conseguenza, suppongo che la pietà o semplicemente il rispetto per la vittima se lo sia ingoiato un’anima offuscata, una mente complessa, un cuore d’inverno.

Mi domando però se non sia la solitudine la vera “voce” che spinge questi soggetti a fare una scelta così surreale, a coltivare un sentimento così perverso. Perché è evidente che la donna sia in stato di abbandono: possibile altrimenti che nessuno tra amici, parenti, colleghe, persone vicine alla donna mentalmente rapita da un delinquente, sia riuscito, sia riuscita, a farla riflettere, a ripensarci, a dissuaderla? Nessuno è stato capace di andare oltre gli insulti e gli sputi ai giornalisti?

Mi sembra il caso evidente di una vittima dei suoi stessi turbamenti. Mi sembra il caso evidente in cui anche una vittima può avere dei complici.

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