Abbiamo una notte di caroselli e fumogeni, abbiamo televisioni che titolano sulla grandezza dell’Inter, al mattino abbiamo giornali cartacei appena sfornati che trasudano soddisfazione e compiacimento. Anche una punta di rammarico, come evitarla, ma giusto il minimo. Basta leggere la “Gazzetta dello sport” e il morale viaggia a mille: Inter grandiosa, Inzaghi stratega assoluto, Manchester City ridimensionato, Guardiola molto fortunato.
Ma che bello: improvvisamente, dopo averla invocata e sollecitata per epoche intere, dalla sera alla mattina fiorisce quella che la morale dello sport definisce armoniosamente “Cultura della sconfitta”. Cioè quel saper accettare la musata guardando oltre il risultato, considerando e anzi ammirando spassionatamente il modo dignitoso, decoroso, persino spettacolare, di lasciare agli altri il risultato.
Non sembra neppure più Italia, il dopo-finale di City-Inter. Siamo tutti migliori, più posati, più sportivi, la Champions persa non incide, non affligge, nemmeno interessa: siamo beatamente in contemplazione della bellissima sconfitta.
Certo, qualcosa ci giocano il peso e la postura della squadra perdente, questa Inter che unica in Italia è sostenuta da un potente circolo di potenzialmemte intellettuali cresciuti alla corte di Moratti, ma sì, ormai li conoscono tutti, vengono intervistati – e se non vengono intervistati, procedono in proprio sui social – ogni volta che c’è un derby, una finale, un cambio societario, una panchina che salta, i Vecchioni, i Serra, i Severgnini e compagnia cantante di comici, manager, veline. Questa potente loggia simil-massonica tiene l’Inter dentro una campana di protezione totale, in quest’ultimo caso a mezzo “Gazzetta” – organo di riferimento – ha avviato immediatamente il sublime slogan della Beata Sconfitta, riuscendo a trasformare una cocente disillusione in una festa di popolo. Nemmeno è il caso di dire cosa succede quando la finale se la perdono la Juve, il Milan o la Roma: allora altro che grande prestazione, grande sfortuna, grande squadra, basta che perdano per un rigore rubato al 96′ e subito partono i processi, le derisioni, la condanne. Per loro, vale solo il sacro dogma italiano: in finale conta solo vincere, non importa come, perchè il trofeo resta e le chiacchiere se le porta il vento.
Basta aprire la finestra, guardarsi in giro, ascoltare i discorsi, per comprendere subito che per l’Inter il mondo si capovolge. Questa Champions che si dissolve in una maledetta serata turca sembra non interessare più a nessuno, non conta che l’Inter l’abbia persa, conta come l’abbia persa. Noi, teorici mondiali del risultatismo, di quei valori supremi come il cinismo e l’utilitarismo, insofferenti e sarcastici con i teorici del bel gioco, improvvisamente diventiamo maestri di saggezza, ma certo, ci sono meravigliose sconfitte che valgono più di rachitiche vittorie. Grande Inter, fieri dell’Inter. E che Guardiola abbassi lo sguardo, magari si vergogni anche un po’.
Tutto fantastico. Sembriamo persino una nazione cresciuta e matura. Perfetto. Basta che restiamo così anche quando ad esempio vinciamo una finale dei Mondiali o degli Europei ai rigori. Se non ricordo male, in quei casi parliamo di grande maturità, grande forza, grande tenacia, non importa chi abbia giocato meglio, non conta la fortuna, conta solamente chi vince, signori, è il trionfo del sistema Paese, anzi, a guardarlo bene, è il nuovo Rinascimento italiano.
A leggere la Gazzetta e il Corriere, pare che la CL l’abbia vinta l’Inter, anche nettamente. Inzaghi ha incartato Guardiola, gli ha dato una lezione tattica e altri elogi sperticati. L’Inter ha tirato in porta solo negli ultimi 5 minuti, spinta dalla forza della disperazione. Ma l’intellighenzia interista da lei citata (a cui aggiungerei gli aedi Bonolis e Lella Costa) ha visto un’altra partita. Come al solito vivono su una nuvola dove regnano sovrane l’autocompiacimento, l’idea della loro purezza e il senso di impunità. Tutti ingiustificati.