INTROVABILE PICCO

di MARIO SCHIANI – “Estragone, seduto su una pietra, sta cercando di togliersi una scarpa. Vi si accanisce con le due mani, sbuffando. Si ferma stremato, riprende fiato, ricomincia daccapo. Entra Vladimiro”.

Incomincia con queste note l’attesa più famosa del teatro moderno: quella per Godot. L’attesa per ciò che non arriva mai, o non arriva quando vorremmo arrivasse.

Samuel Beckett la metteva sul difficile, tanto è vero che i suoi lavori non sono mai stati messi in scena al Bagaglino, ma con “Aspettando Godot” disse qualcosa che tutti noi possiamo intuire, se non proprio comprendere appieno. Specie oggi, specie nel bel mezzo – ma sarà poi questo, il “mezzo”? – di un infernale isolamento, di un’attesa che pare esistere in se stessa, senza andare da nessuna parte.

Basta sostituire Godot con “picco” per avvicinare ancor di più la nostra presente esperienza al concetto di Beckett.

Da settimane, ormai, aspettiamo questo benedetto-maledetto “picco” dell’epidemia, ovvero il vertice della curva ascendente dei contagi, la cima di un ottovolante alla rovescia, in cui la salita fa molta più paura della discesa. Lo aspettiamo perché, così crediamo, sarà la svolta di tutta la faccenda: in quel momento, o subito dopo, sapremo che potremo uscirne. La strada potrà essere ancora lunga e sconnessa, ma l’uscita sarà più vicina dell’entrata e questo ci sembra molto importante, fondamentale addirittura.

Il problema è che questo “picco”, un po’ come in Beckett, è impalpabile e metafisico. Soprattutto, continua a spostarsi. Anzi, continuano a spostarlo. Virologi, matematici, informatici, esperti in big data e funzionari dell’Oms si affannano ad annunciare e a smentire, a ipotizzare e a negare, ad affermare e a contraddire. Il “picco” sarà questa settimana, no la prossima. Comunque entro Pasqua. Ferragosto al massimo. Facciamo Natale e non se ne parli più.

Noi, come Estragone e Vladimiro, ce ne stiamo seduti ad aspettare, sperando di vederlo arrivare in fondo alla via, ‘sto misterioso “picco”, vestito come un re o magari avvolto negli stracci di un mendicante, pensando che forse avrà la grazia di annunciarsi con una telefonata o un messaggio su WhatsApp.

E se sbagliassimo tutto? Forse dovremmo una buona volta riconoscere che il “picco” cui tendiamo è un prodotto della nostra immaginazione, avida come non mai di incoraggiamenti e di speranze. Il “picco”, quello vero, ci sarà, magari c’è già stato, ma non è come vorremmo che fosse, ovvero un grande segnale acustico, una sirena che ululando annunci l’allarme rientrato, una notizia “Ultim’ora” a conferma che tutto è andato bene per davvero, un suono d’arpa, un profumo di torta alle mele, un cespuglio di rose fiorito in giardino nel giro di un minuto.

Non sarà così: il “picco” passa senza farsi vedere, senza che sia possibile organizzare un’edizione straordinaria del telegiornale per annunciarlo, senza dare a noi la possibilità di buttar giù un post al volo su Facebook e a Mentana di lanciarsi in una “maratona”.

Meglio allora non aspettarlo come fanno Estragone e Vladimiro, e seguire passo per passo, con umiltà e resilienza, la via della fiducia. Anche perché la storia di Beckett finisce mica troppo bene, sapete? Ecco qui:

“VLADIMIRO: Allora andiamo?

ESTRAGONE: Andiamo.

Non si muovono”.

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