INCHIESTA UBER, LA NUOVA SCHIAVITU’ E LA STORIA DI KELVIN

di GIORGIO GANDOLA – Pedalare sotto la pioggia per tre euro a consegna. Fare lo slalom fra automobili e pedoni sui marciapiedi, risparmiato dagli insulti (che giustamente vengono dedicati ai monopattini dei fighetti) solo perché la gente sa che sembri uno schiavo. Con quella bicicletta colorata, con quel cubo da cibo sulle spalle, con quello sguardo perso da automa a fine carica; uno schiavo metropolitano della nuova società globale. Quella che piace, quella che porta al domani e alla pizza a letto, quella che sfiora il socialismo mondialista al potere quasi ovunque.

Tre euro all’ora, sottrazione delle mance, decurtazione del compenso per punizione in caso di inadempienza contrattuale. “What else?” deve aver commentato il magistrato che ha chiuso l’inchiesta a Milano sui rider di Uber Italy. Prima dell’estate l’indagine aveva portato a un provvedimento inedito per un’azienda di consegne a domicilio, il commissariamento della filiale del colosso americano. Ora il pm ha messo nero su bianco tutta la faccenda e ha formalizzato l’accusa per dieci manager di Uber e delle agenzie interinali: caporalato. “I riders venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale, come riconosciuto dagli stessi dipendenti Uber”.

Secondo i titolari dell’inchiesta “il servizio veniva appaltato a terzi che sfruttavano e minacciavano i migranti. La società era consapevole”. E ancora: “I lavoratori erano pagati tre euro a consegna, derubati delle mance e puniti”.

Uno scenario triste che formalizza ciò che fino a ieri faceva parte della vulgata popolare in ogni città italiana. Bastava vederli pedalare, frenare, suonare il citofono, consegnare, contare i soldi, ripedalare per capire. E se arriva qualche mancia più consistente del solito è proprio perché i clienti hanno capito. Sono figli del sogno occidentale, sono l’anello più debole di una società della felicità che applaude agli sbarchi senza voler sapere dove finiscono gli sbarcati. Oltre la banchina dei porti c’è la miseria, la fuga continua, il degrado sociale, i piazzali delle stazioni, la deriva di uomini che devono costruirsi una vita esattamente come nell’Ottocento partendo dal sottosuolo.

Eppure, se incroci il loro sguardo e ti fermi a considerarli persone, ti accorgi che hanno gli occhi che ridono.

Ne ho conosciuto uno. Si chiama Kelvin, ivoriano, non più di 25 anni, sostava al mattino con il cappellino teso per l’elemosina in una via centrale di Milano, davanti a una pasticceria prestigiosa. Luogo di passaggio per lui strategico. In famiglia si parlava di lui, ci fermavamo a chiacchierare. A un certo punto scatta la confidenza e Kelvin ci spiega che al suo paese aveva imparato a fare il magazziniere e a guidare il muletto. Mi allunga un curriculum, aggiunge che lo dà a chi considera amico perché vuole lavorare. E pronuncia questa parola come se contenesse il miracolo della vita, la dignità dell’uomo che desidera con tutte le sue forze andare oltre il nulla. Potremmo aggiungere, oltre il divano e il reddito di cittadinanza.

Qualche giorno dopo scompare e per mesi non lo vediamo più. Pensiamo al racket, alla rotazione sulle piazze, in fondo ci conforta l’idea che qualche altro amico gli abbia procurato un muletto per muovere bancali in un magazzino. Una mattina, mentre cammino in quella via e sul quel marciapiede, sento un grido dalla strada. È lui, ha un caschetto in testa, inforca una bicicletta verde, ha il cubo sulle spalle. Vuole che lo guardi. “Sono bello vero?”. Mi spiega che adesso lavora, adesso è qualcuno. E che sarà sempre grato a questa città, a questo paese che lo ha adottato. A tre euro a consegna.

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