IL TEST ESTREMO, CINQUE ORE SENZA SOCIAL: SOPRAVVIVERE SI PUO’

“Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger stanno tornando online ora. Ci scusiamo per l’interruzione di oggi: so quanto fate affidamento sui nostri servizi per restare connessi con le persone a cui tenete”.

Così scrisse Mark Zuckerberg al termine di quella che deve essere stata una delle giornate più lunghe della sua vita: per oltre cinque ore i suoi giocattoli “social” sono spariti dalla Grande Griglia Mondiale. Irraggiungibili, scollegati, tristi e immoti come una vecchia Due Cavalli che non riesca più a partire.

Le scuse, semplici e lineari, fanno parte di una strategia doverosa, da parte di un imprenditore del suo calibro: niente fronzoli, rimbalzi di responsabilità, accuse generiche. La botta è stata sufficiente, deve aver pensato Mark, non occorre vada a ficcarmi in altri guai. Sei miliardi di dollari, questa infatti la perdita stimata del blackout.

Scuse semplici e dirette, si è detto, ma non del tutto prive di ipocrisia: Zuckerberg sa benissimo che Facebook e compagnia bella (a proposito: non trovate che “Compagnia Bella” sarebbe un nome azzeccato per un nuovo social network? Quasi quasi lo deposito), non ci servono affatto per rimanere in contatto con le persone a cui teniamo. Se questo accade, è incidentale, anzi è una scusa, un alibi per rimanere online e condividere “urbi et orbi” tutto quel che ci capita a patto che sia trascurabile. Il blackout non ci ha staccato dalle persone care, ma dal pubblico, piccolo o grande, che ognuno di noi ha raccolto nel suo profilo social. E il pubblico di ognuno si specchia in quello di tutti: su Facebook & C. (Compagnia Bella non lo uso più per ragioni di copyright, e diffido anche voi dal farlo) andiamo a corrente alternata, un momento siamo attori e un altro spettatori, individui e massa, istigatori e istigati.

Volete invece sapere quando siamo davvero rientrati in contatto con le persone care? Proprio durante il blackout. In quelle ore abbiamo dovuto scegliere a chi telefonare per passare informazioni importanti circa i nostri impegni, i nostri spostamenti e lo stato d’animo di giornata. Niente più messaggini distratti, niente più incarichi di comodo affidati alle emoji per liquidare un importuno, niente più buffe sciocchezze inoltrate a utenti multipli. Siamo invece tornati alle telefonate, alle conversazioni vere: “Pronto? Ti disturbo? Tutto bene? Senti una cosa…”. E dall’altra parte una voce umana, forse contenta di sentirci, forse seccata, oppure affannata, assonnata, tesa, rilassata.

La rivoluzione di quelle cinque ore senza social è dovuta soprattutto alla costrizione che ci ha imposto: una selezione delle priorità, una cernita tra le conoscenze, le amicizie, le relazioni di lavoro. Per anni abbiamo accumulato “amicizie” sulla base di una sorta di malintesa uguaglianza digitale: i nostri “amici” di Facebook sono in realtà il nostro uditorio quotidiano e anche quanti, tra questi, corrispondono a conoscenze vere, amicizie di vecchia data, amori, lunghe relazioni professionali, in quel contesto finiscono per appiattirsi e diventare un indistinto magma da compiacere per ottenere gli agognati “like”. Per cinque ore, le iconcine di Facebook e Instagram sono diventate invece persone vere, e le conversazioni avute con loro sono state su un piano diverso, tanto che ci avrebbero preso per matti se, alla fine, avessimo chiesto “Scusa, ti è piaciuta questa chiacchierata? Non è che metteresti un like?”

Ci siamo accorti del pasticcio in cui ci siamo ficcati affidando tanta parte di noi stessi ai social quando, a blackout inoltrato, abbiamo avvertito un acuto paradosso manifestarsi come fosse un corto circuito: Facebook e Instagram sono spariti e non possiamo commentare questa sparizione su Facebook e Instagram. Qualcuno, irriducibile, è corso su Twitter, ma i più, credo, avranno fatto i conti con questa sensazione strana: i pensieri privati sono di colpo rientrati nell’ambito che per secoli li ha visti ospiti fissi, ovvero la nostra testa. Al più, li abbiamo confidati a chi ci era vicino, magari seduto sul divano accanto a noi. Per questa ragione la realtà ci è apparsa più silenziosa e vivibile: i pensieri sono tornati a far parte del mondo effimero e mutevole al quale appartengono, di nuovo nuvole trasportate dal vento, entità che permisero a Cartesio di attestare la sua esistenza, ma che niente di più gli assicurarono circa la verità dell’universo. Pensieri come “post” visibili solo dalla nostra interiorità, ovvero dall’unico network che davvero ci permette di comunicare con la persona a cui più teniamo: noi stessi.

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