I REGALI PROMESSI DAI PARTITI LI PAGHEREMO ANCORA NOI

Una mensilità in più all’anno per tutti i lavoratori dipendenti senza costi aggiuntivi per le imprese. Ecco la principale proposta del PD in tema di fisco. Caspita che bella idea, come non averci pensato prima! E allora, già che ci siamo, perché non due? Va be’, accontentiamoci. Naturalmente si accontentano i lavoratori dipendenti, perché invece le partite Iva, i parasubordinati, i disoccupati, i pensionati, cioè i meno protetti, restano a bocca asciutta. In fin dei conti sono solo alcune decine di milioni di italiani. Ma non c’è da stupirsi: il PD è l’erede del partito dei lavoratori, no?

Veniamo agli aspetti tecnici: come realizzare la magia di far arrivare in busta paga una mensilità in più senza gravare i datori di lavoro di ulteriori costi? Riducendo il prelievo contributivo, cioè quanto si paga all’Inps, naturalmente senza effetti sulla pensione. In pratica, fra le due parti del contratto, lavoratore e datore di lavoro, si realizza quello che si usa definire un accordo win-win: il lavoratore percepisce di più senza che il datore di lavoro sborsi di più. Molti elettori sarebbero avvantaggiati da questa misura e, apparentemente, nessuno svantaggiato. Meglio: uno svantaggiato c’è, l’Inps, ovviamente, a cui si addossa la differenza, perché, come disse Milton Friedman, economista della scuola di Chicago non proprio amato dalla sinistra, “non ci sono pasti gratis”. Vien da chiedersi solo se sia sensato accollare un nuovo fardello al già disastrato bilancio dell’Inps, che secondo “Itinerari Previdenziali” già sopporta una differenza di 40 miliardi all’anno fra contributi erogati e prestazioni erogate.

Peraltro, c’è poi anche la riduzione del cuneo fiscale, la differenza fra il costo dell’azienda e quanto percepito dal lavoratore, variamente presente nelle proposte di quasi tutti i partiti. Purtroppo questa convergenza non è garanzia di bontà della proposta. Ma c’è di più, una sottigliezza tecnica non irrilevante. La riduzione del cuneo fiscale agisce sull’Irpef invece che sui contributi Inps e quindi delle due l’una: o si aumenta l’Irpef a qualcun altro oppure si aumenta il deficit pubblico. Non mi risulta che alcun partito abbia indicato a chi vorrebbe far pagare lo sconto a favore dei lavoratori dipendenti, sempre per la logica di promettere vantaggi a un gruppo di elettori senza spaventarne altri. E così alla fine l’onere si scaricherà ancora una volta sul debito pubblico, in modo però più evidente e immediato rispetto al gravame differito che sopporterebbe l’Inps.

Il PD avanza anche altre proposte minori in materia fiscale. Vale la pena di soffermarsi sull’idea di dare una dote ai diciottenni con il gettito di un aumento della tassa di successione sui grandi patrimoni (oltre i 5 milioni). Ci sono diverse cose da dire: che regalare 10 mila euro ai diciottenni è un’idea balzana (o elettorale che dir si voglia); che la tassa di successione si potrebbe alzare perché in Italia è davvero bassa; che le due cose insieme proprio non c’azzeccano (direbbe l’indimenticato Tonino Di Pietro). Cominciamo da qui. La tassa di successione è assolutamente imprevedibile quanto a gettito: quanti anziani facoltosi – perché di quelli poveri o del ceto medio non ce ne facciamo niente – avranno la gentilezza di spegnersi nell’anno fiscale 2023? Se a novembre fossimo in deficit, potremo chiedere a qualche riccone di accelerare il suo transito terreno? Non credo. Certo, sempre in prospettiva elettorale, è interessante il meccanismo che individua degli elettori avvantaggiati (i diciottenni) e colpisce gli ex elettori (i defunti) che quindi non possono lamentarsi (ma i loro eredi sì).

Il secondo punto: da liberista (vero e non di etichetta) penso che l’unica tassa da aumentare sia proprio quella di successione, che non è una patrimoniale, come erroneamente sostiene il centrodestra, perché non colpisce la ricchezza in sé, ma il suo trasferimento mortis causa. È da aumentare perché per gli eredi si tratta di un arricchimento senza merito, per il solo fatto di essere nati da genitori ricchi o di avere conquistato un coniuge abbiente. Se vogliamo livellare le opportunità e premiare il merito, non il censo, dobbiamo partire da qui. C’è il piccolo dettaglio che i possessori di grandi fortune, o almeno di svariati milioni, conoscono e attuano tutta una serie di manovre legittime atte a mettere al riparo il patrimonio, o buona parte di esso, dalle grinfie del fisco. E allora addio gettito incrementale da trasferire ai giovani.

Infine la destinazione del gettito: aiutare con 10 mila euro i diciottenni per la casa, gli studi o l’avvio di un lavoro. Ma dove vivono gli autori di questa proposta? Hanno mai visto un diciottenne del 2022? Posto che si possa distrare un attimo dai social per comperare una casa, dove trova le altre centinaia di migliaia di euro per pagarla? E come la manterrà (e si manterrà) dopo averla comperata? Quanti di loro a 18 anni iniziano un’attività in proprio? E poi già esistono strumenti per supportare le nuove iniziative, specialmente se avviate da giovani o da donne. E il contributo agli studi? Questo sembra meno dissennato degli altri propositi, ma anche qui: esistono già strumenti per facilitare l’accesso agli studi superiori per i meno abbienti (ché degli altri non ci preoccupiamo). E poi, diciamolo: in Italia l’università costa poco, tranne qualche ateneo privato di prestigio. Il vero sacrificio per la famiglia sono i costi indotti per la vita universitaria, specialmente fuori sede, e la rinuncia a uno stipendio. Se va bene, per 5 anni.

Davvero 10 mila euro hanno un senso in tutto questo? È qualcosa, si dirà, ma poiché attinge alle (limitate) risorse pubbliche, meglio investire quei denari nel creare vere opportunità per tutti, giovani compresi.

Basta, davvero basta, logiche di premi e premietti, è ora di impegnarsi a creare le condizioni per consentire alle persone di realizzarsi, senza mettergli i soldi sul conto corrente come il topolino dei denti.

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