A questo punto escluderei un corteo del gay pride in piazza San Pietro. Francesco, il papa, ha preso il toro non soltanto per le corna, ma per tutti gli annessi e connessi, fuori dal seminario i tendenzialmente froci, la chiesa ha già dato ampiamente in merito e si mormora che ancora prosegua in questo tipo di apostolato.
Di fronte alla deriva il pontefice ha capito come non ci sia più il tempo del compromesso, ha buttato all’inferno quello che lui medesimo aveva detto: ”Chi sono io per giudicare un gay”, come liberando la lingua e la testa di ogni correttezza politica, ai vescovi riuniti nella conferenza episcopale, aggiungendo, pare, la garbata immagine di “checche isteriche” che nemmeno il generale Vannacci oserebbe.
Ci siamo, dunque, il sigillo del papa per la bolla apostolica, un decreto orale absit iniuria verbis però con ore rotundo e apertis verbis, mi butto nella nostalgia del classico in omaggio ai testi sacri delle pronunce ecclesiastiche.
Il problema esiste, non riguarda la scelta personale del seminarista o affine, ma quello che potrebbe comportare nei confronti di altri aderenti alla missione di fede e dei pargoli che ascoltano e apprendono il catechismo. Mala tempora currunt nelle navate e nelle sacrestie, Bergoglio ha annusato l’odore dell’incenso tossico, ha deciso che così non si possa e non si debba proseguire, se è doveroso scambiarsi un segno di pace è opportuno chiarire come, dove e quando tale gesto si realizzi, non è bastato il bacio di Giuda, qui si è andati oltre, ma de bòn, ed ho già letto le gramellinate puntuali delle anime candide stupite di tale frasario degno di Bombolo e non del capo della Chiesa.
Vorrebbero forse che restassero sussurri (dei seminaristi gay) e mai grida (delle vittime), preferirebbero parlarne nei corridoi ma non in piazza, ipocriti e tartufi del pensiero, ma non dell’azione (cattolica). Nuntio vobis gaudium magnum, nel senso buono: la messa è appena incominciata, gli altri vadano pure in pace.