E LASCIAMOLI PRENDERE MUSATE, QUESTI FIGLI

di MICAELA UCCHIELLI (psicologa e psicoterapeuta) – Ogni volta che qualcuno si siede nel mio studio e comincia a raccontarsi mi domando: che bambino è stato quel soggetto per sua madre?

E’ la domanda che sempre, come professionista, mi pongo, consapevole che è in quello snodo che, quasi sempre, si gioca la partita. E’ stato un bambino desiderato?

Pensato, immaginato, accolto con un desiderio non anonimo ma particolare?

Ascoltando il romanzo famigliare delle persone ci si accorge che nessuna storia è uguale ad un’altra. Ci sono soggetti che non ne sanno nulla e altri che conoscono molto bene le coordinate della loro venuta al mondo. Di certo, quasi tutti ricordano la propria infanzia.

La maggior parte di quelli che ascolto, giorno dopo giorno, non fanno che interrogarsi e interrogare il desiderio dell’altro: raccontano di essersi sentiti troppo amati oppure troppo poco.

Alcuni sono stati i preferiti dal padre, altri hanno avuto un legame molto intenso con la madre, certi si sono sentiti, per tutta la vita, secondi rispetto ai fratelli, colpevoli di aver ricevuto, immaginariamente, di più e meglio.

Se da un lato essere stati figli desiderati salva le persone dalla follia, dall’altro lato il fatto che ogni genitore abbia un desiderio sui propri figli disegna per essi un destino che, spesso, non è particolarmente felice.

Capita che ad un certo punto della loro esistenza questi figli ormai cresciuti si accorgano che stanno facendo il viaggio di un altro, quello prenotato dal padre o dalla madre, e questo comporta, non di rado, un salato sovrapprezzo.

Raccontano di aver scelto una professione che non amano, di avere rinunciato ai propri sogni, di aver preferito i conti che tornano per poi accorgersi che, alla fine, i conti non tornano comunque.

La stranezza è che quando questi soggetti diventano a loro volta genitori, paiono aver dimenticato la loro fatica di figli e come fecero un tempo i loro padri e le loro madri, faticano a lasciare la loro prole libera di deluderne le aspettative, di non essere all’altezza dell’ideale immaginato per loro, libera di non essere troppo o troppo poco o mai abbastanza.

Faticano a lasciare ai propri figli la libertà di correre e di sudare, di sbagliare o di cadere, di non essere i primi della classe. Liberi di seguire le loro inclinazioni.

A volte basterebbe distogliere, quel tanto che basta, lo sguardo da questi bambini, sempre a portata di mano e di occhi, per essere genitori sufficientemente buoni, avendo in mente che serve loro più riconoscimento che adulazione e che hanno più bisogno di essere ascoltati che accontentati.

Che è benefica, ad esempio, persino la paura di perdere il nostro amore ma mai viceversa: molti genitori sono preoccupati che i figli non li amino abbastanza, temono di ferirli coi loro no.

I bambini si accomodano allora al centro dell’universo, intorno a cui orbitano tutti gli altri personaggi come pianeti, genitori inclusi.

L’onnipotenza infantile si prolunga per un tempo indefinito: incontriamo nei nostri studi piccoli despoti, corpi iperattivi, disturbi dell’attenzione e del linguaggio, abbandoni scolastici e molto, molto altro.

A volte mi viene in mente, allora, che forse basterebbe ricordarsi di quel viaggio che abbiamo fatto col biglietto che qualcun altro ha acquistato per noi, per lasciar fare, ai nostri figli, il loro. Basterebbe, penso: poi apro la porta del mio studio, faccio accomodare una nuova coppia di genitori e realizzo che non impariamo nulla da ciò che ci fa star male, ma che tendiamo, piuttosto, a ripeterlo.

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