DA QUELLE FORME DI GRANA RIEMERGE UNA MORALE CHE I FIGLI HANNO COLTO BENE

«Quante volte, papà, abbiamo sperato che rallentassi la tua corsa nella vita e quindi potesse rallentare anche la nostra, così da vedere cosa c’era fuori dal finestrino. Rallentando avresti potuto vederlo anche tu, capendo cosa c’era di importante oltre la tua attività».

Così iniziava la “lettera”, singolarmente sincera e coraggiosa, che i figli hanno indirizzato al papà, Giacomo Chiapparini, l’imprenditore agricolo di Romano Lombardo morto a 74 anni, alcuni giorni fa, per il collasso degli scaffali nel magazzino di stagionatura dove erano stivate 16.600 forme di Grana Padano.

Tutto è stato “troppo” e tutto è stato “strano” nella morte di Chiapparini. Incredibile la natura dell’azienda, incredibile l’incidente e, dell’incidente, ancora una volta, incredibili le dimensioni: tutte quelle scaffalature che collassano come un gigantesco castello di carta. Incredibile che sotto quel crollo resti imprigionato l’imprenditore, che stava lavorando, di domenica e di sera (l’incidente è avvenuto infatti nella serata di domenica 6 agosto). Incredibile soprattutto la personalità del Chiapparini, come emerge dal giorno e dall’ora dell’incidente, ma prima ancora dalla lettera che gli hanno indirizzato i figli.

Molto bergamasco, questo Chiapparini. Che parlava sempre in dialetto, ci hanno raccontato le cronache, e che spesso aveva bisogno della figlia come interprete con clienti e fornitori. Ma molto bergamasco, soprattutto, nella sua furiosa voglia di lavorare.

Tutto questo fa inevitabilmente pensare. Lì, dove passava la parte maggiore e, facile pensarlo, la parte più amata della sua vita, ha trovato la morte. Si è trovato sepolto proprio sotto le forme del formaggio alle quali dedicava tutte le sue cure. Al funerale l’accorato lamento dei figli sembra possa essere interpretato come un rimprovero al papà che, forse, si curava più delle forme di grana che di loro, più dell’azienda che della famiglia.

Il caso di Chiapparini suggerisce inevitabilmente una morale – forse anche un moralismo, tutto sommato facile, ma necessario. Si deve lavorare, perché senza lavoro non si vive. Elementare. E molta gente, anche da noi, non ha lavoro e vive male (tutte le discussioni e le proteste di questi giorni su reddito di cittadinanza e salario minimo rimandano, in fondo, al lavoro che non c’è e all’inquietudine, per molti, di non riuscire ad arrivare a fine mese).

Dall’altra parte il dover lavorare porta a forme di schiavitù, anche per scelta maniacale, come in questo caso, che assorbono totalmente la vita e rendono difficile gustarne gli aspetti “liberi”, regalati agli affetti e alla cultura. Siamo alle solite: il troppo poco di chi non ha e il troppo tanto di chi ha già.

La morte dell’imprenditore di Romano rimanda, dunque, a un dato semplice: si è sempre sollecitati a una scelta: impiegare “bene” il proprio tempo per lavorare, oppure “buttarlo via” per coltivare le proprie ricchezze interiori e stare con le persone che si amano.

Alla fine, poi, quando, dopo aver lavorato e lavorato, si ricupera una elementare forma di lucidità, ci si accorge che il tempo “buttato via” è quello impiegato meglio. E ci si accorge pure che avere qualche migliaio di forme di grana in meno e qualche affetto in più rende più bella e più piacevole la vita, anche quella spesa per lavorare.

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