COSTRUIRE IL MALATO GUERRIERO

di ALBERTO VITO (sociologo e psicologo) – E’ sicuramente esperienza di tutti gli operatori sanitari aver osservato come i pazienti e i loro familiari possano reagire in modo diverso alla malattia. Si tratta di un tema molto delicato e complesso: la malattia è senz’altro dolore, sofferenza, crisi. Ciò non va mai dimenticato e vanno evitate banalizzazioni poco rispettose. Di conseguenza tutte le reazioni del paziente sono legittime. Quelle più frequenti sono depressione, rabbia, paura, tendenza all’isolamento.

Tuttavia, è innegabile che le persone affrontino in modo molto diverso la malattia. Alcuni, pochi ma non pochissimi, grazie a risorse personali e familiari, sono in grado, pur in un momento di grande difficoltà, di “utilizzare” la crisi come momento di crescita personale, riuscendo a conviverci senza peggiorare la qualità della loro vita e delle relazioni. In taluni casi, le relazioni diventano persino più ricche, profonde e significative.

Si tratta di un’esperienza rara, eppure possibile, che chi lavora in ospedale conosce bene: in un certo numero di casi, il contatto con la sofferenza e con la morte (in effetti, è questo) ci rende migliori. Ci consente, io dico, di sistemare l’elenco delle nostre priorità esistenziali. Abitualmente, nella nostra vita quotidiana, impegniamo energie ed affanni per cose, in fondo, di poco conto, e pensiamo poco a ciò che veramente conta. Il contatto con la malattia ci consente invece di ricollocare al primo posto ciò che è davvero importante: null’altro che i nostri affetti, le persone care, chi amiamo e chi ci ama.

Altra osservazione essenziale: ogni malattia “importante” è sempre familiare. Sia perché lo stress connesso alla malattia riguarda tutta la famiglia, sia perché i familiari rappresentano l’elemento di cura più importante, quello che più incide sulla qualità della vita. Per questi due motivi essi dovrebbero diventare parte integrante di ogni percorso clinico.

Per chi è interessato a questi temi, consiglio la lettura del volume “Con molta cura” (ed. Rizzoli), in cui Severino Cesari descrive molto bene come l’esperienza di paziente gli abbia dato l’opportunità di capire l’importanza del prendersi cura. In una fase delicata della sua vita, egli comprende la necessità di curare se stesso, le persone amate, le proprie passioni, affermando la gioia di vivere, di godere appieno di un caffè, di una giornata di sole, di un’amicizia profonda. Così ogni giorno va vissuto nella Cura ed ogni giorno è sempre diverso. E ci invita a farla, “la cura di prenderci cura”.

Partire da queste osservazioni comporta una profonda rivisitazione anche dei modelli formativi universitari dei medici e degli operatori sanitari. Come fare in modo che essi incidano al fianco dei pazienti, facendoli convivere meglio possibile con la loro malattia, fermo restando che ciò dipende innanzitutto dalle loro capacità individuali e familiari? Quali competenze servono affinché i medici non osservino solo dall’esterno tale disparità di reazioni esistenziali, ma contribuiscano, almeno in parte, a migliorare tale esperienza? I sanitari sono spettatori passivi della resilienza dei pazienti, o possiamo fare qualcosa per aiutarli ad attivare tali risorse? E lo stesso coinvolgimento dei familiari non richiede forse un ripensamento globale, a partire dalle modalità di ricovero ospedaliero?

Le conoscenze scientifiche provenienti dalle discipline umanistiche indicano la strada per promuovere, accanto ai progressi tecnologici, una cura medica più globale, più ricca, più efficace, più vera. Per aiutare la persona, prima ancora del malato.

Un pensiero su “COSTRUIRE IL MALATO GUERRIERO

  1. Piera dice:

    Al solito le riflessioni di Alberto sono lucide e interessanti, foriere di nuove prospettive che non è più possibile accantonare!

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