COSA INSEGNA LA MADRE CHE RIFIUTA LA BIMBA CRESCIUTA IN UN ALTRO GREMBO

Vogliono un figlio a tutti i costi, si recano in Ucraina dove è legale la maternità surrogata. Siamo nell’estate del 2020. La bambina nasce, si chiama Luna. Ma, nei giorni scorsi, veniamo a sapere che la coppia che tanto ha fatto per avere quella bambina, inspiegabilmente, decide di abbandonarla.

Adesso i giornali cercano di rendere un po’ meno inspiegabile la faccenda e ricostruiscono quello che è successo. Non è un fattaccio di violenze o minacce e tanto meno di improvvise impossibilità economiche. È un vero e proprio dramma interiore. Della madre, soprattutto, di quella che avrebbe dovuto essere la madre.

Così le spiegazioni in agenzia: “Dopo qualche mese, erano sorte le prime discussioni tra papà e mamma. È stata la donna, secondo la prima ricostruzione, a non sentirsela più di crescere quella bambina nata da un’altra madre, surrogata, appunto. Un sentimento che ha minato ogni giorno di più le sue convinzioni, travolgendo anche il marito”.

Da dove, tra le tante, due evidenze vengono fuori. La prima. La maternità è anche – anche, certo non esclusivamente – un rapporto fisico: una pancia materna che ospita un futuro cucciolo d’uomo. Si possono imbastire tutti gli arzigogoli possibili, ma da quella “cosa” lì non si può prescindere: la pancia, il grumo di cellule che grazie a quella pancia crescono e diventano un essere umano. Si tratta del corpo, insomma. In tanta retorica del virtuale, il fisico, il corporeo rivendica imperiosamente i suoi diritti.

La seconda. Per accettare un esserino nato da una maternità surrogata, bisogna ripensare precisamente quel rapporto: il bambino è stato ospitato nella pancia di un’altra, dunque. Il rapporto fisico c’è ancora, ovviamente: il bambino lo posso prendere in braccio, lo devo nutrire, pulire, cullare… Gli devo cantare la ninna nanna e raccontare la storia di cappuccetto rosso. Ma è cresciuto nella pancia di quella lontana madre non madre, che vive nella lontana Ucraina.

Tra la fecondazione degli inizi che viene dai genitori di Torino e la vita che viene dalla pancia della madre ucraina, un abisso. È l’abisso fra una cellula fecondata e una bambina che piange, ride e chiama “MaMa Ta TaTo, come parlotta lei in ucraino”: così raccontano sempre le notizie di agenzia. Le quali aggiungono pure che la bambina stringeva un peluche. E che già i giudici hanno avviato la procedura per concederla in adozione a un’altra famiglia di Torino.

Per scavalcare l’abisso tra la forza, quasi violenta, del corpo e la dolcezza delle relazioni da costruire su quel corpo, ci vuole una forza smisurata. E uno, se quella forza non ce l’ha, non se la può dare, come don Abbondio non poteva darsi il coraggio che non aveva.

Sicché la coppia e soprattutto la mamma di Torino che “non se l’è sentita” dicono cose importanti. Ed è difficile dargliela addosso. Ammirevoli, per l’entusiasmo degli inizi, ammirevoli per l’onestà di prendere atto che l’entusiasmo in realtà non aveva radici. Un vicenda, quindi, a modo suo, esemplare. Siamo tutti, in qualche modo, coraggiosi e impauriti come quel papà e quella mamma di Torino.

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