COME FA UNA MAMMA A DIVENTARE L’ASSASSINA PIU’ CRUDELE

La tragedia della piccola Elena riporta all’attualità il tema del figlicidio. E’ quanto di più terribile possa accadere. I genitori, ovvero il punto di riferimento educativo più importante, la maggiore sicurezza a cui affidarsi, le figure che devono garantire protezione e rassicurazioni, all’improvviso si trasformano in aggressori violenti, fino al punto di provocare la morte dei loro figli.

Sono eventi rari, ma non rarissimi, essendo ben 480 i bambini uccisi dai genitori in Italia negli ultimi vent’anni. Il miracolo della maternità e della paternità si trasforma in tragedia. Mi ha colpito molto il video in cui la bambina esce dall’asilo per l’ultima volta. Va incontro alla madre con allegria e saluta con gioia gli altri bambini. Una situazione di assoluta naturalezza e mette i brividi immaginare cosa avverrà dopo poche ore.

Nel nostro paese il codice penale contempla due ipotesi distinte: l’infanticidio (art. 578) e l’omicidio del figlio commesso con l’aggravante della genitorialità (art. 577 n.1). La prima contempla “l’uccisione del proprio neonato subito dopo il parto o del feto durante il parto quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connessi al parto”, si applica alla sola madre e prevede una pena da quattro a dodici anni di reclusione. La seconda riguarda l’assassinio del proprio figlio, commesso da uno dei due genitori, in tutti i casi di età successiva alla immediatezza della nascita, e prevede la pena dell’ergastolo.

Generalizzando, l’uccisione dei figli da parte del padre quasi sempre avviene per colpire la madre ed all’interno di relazioni molto conflittuali, dopo una separazione subita dalla figura maschile. Più complesse le cause quando è la madre a commettere figlicidio. In taluni casi, alla base vi è una profonda frustrazione personale, oppure (la cosiddetta sindrome di Medea) si riflettono sui figli le problematiche con il partner, ma vi è anche la situazione di una grave depressione materna in cui i bambini vengono uccisi per essere liberati, ponendo fine alle loro sofferenze terrene e impedirgli di vivere in un mondo troppo cattivo (sindrome di Munchausen per procura).

Secondo le casistiche, il profilo della madre figlicida è di una persona giovane, tra i 25 e i 30 anni, in un terzo dei casi vi è una grave malattia psichiatrica che si è già manifestata anche con comportamenti violenti. In queste eventualità gioca un ruolo decisivo l’attivazione o meno della rete familiare, sociale e assistenziale nel prevenire l’evento drammatico. Negli altri casi, l’atto giunge in maniera abbastanza imprevedibile e trova origine nell’assenza di validi legami affettivi tra la donna e la rete parentale, ovvero in conflittualità vissute durante l’infanzia, disturbi della personalità, rifiuto della maternità, aspetti depressivi.

Infine, vi sono situazioni in cui i genitori mettono in atto violenze fisiche talmente gravi da procurare la morte (sindrome del bambino maltrattato). Essi, di fronte ad uno stimolo anche banale, ad esempio le urla o il pianto prolungato del bambino, possono reagire in maniera impulsiva e fortemente aggressiva arrivando a percuotere il figlio con un oggetto contundente, soffocarlo, accoltellarlo. Queste ultime situazioni avvengono in contesti di grave disagio sociale e bassi livelli culturali.

Mi fermo qui. Cosa sia davvero successo a Catania è ancora racchiuso nell’abissale confusione di una giovane mamma. Spazio al silenzio e alla pietà.

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