CIAO BISTECCONE MIO, GIGANTE DI UMANITA’ NEL RETTILARIO RAI

In fondo era davvero lui Santi Bailor Nando Meniconi. Era lui, Giampiero Galeazzi, l’Alberto Sordi di un Americano a Roma. Ma non un buffone e nemmeno un guitto ma un attore a propria insaputa, teatrante da Vanzina, eppure con gli studi classici alla scuola delle suore in piazza di Spagna e poi la laurea in Economia e Commercio e addirittura l’assunzione nei grigi uffici Fiat di Torino prima di scappare, per nostalgia verso il Tevere, la canoa, il canottaggio, il circolo degli amici, insomma Roma, il Lazio, la Lazio.

Ho perso un altro amico di mille viaggi e mille notti niente affatto magiche, svanito al mattino, come sanno fare i campioni e quegli sportivi nel giorno i cui va in campo la nazionale di calcio. Galeazzi Giampiero è stato una brava persona, con amici e tifosi dovunque tranne in casa propria, dico la Rai, il rettilario di redazione che, dopo il successo della partecipazione a “Domenica In”, gli fece pagare il conto, negandogli scrivania e telefono, dando ragione a Lello Bersani che sosteneva: in Rai tutto è permesso tranne il successo.

Successo al quale Giampiero non badava affatto, in fondo mai si è preso sul serio in un ambiente dove sono molte le papere e moltissimi i papaveri, lui ha remato, come seppe fare da giovane vincendo il mondiale juniores del due senza, dopo aver appreso l’arte e la parte da suo padre, campione europeo nella stessa specialità, nel Trentadue. Suo padre, appunto, lo aveva spinto alla pratica sportiva per alleviare il dolore di un incidente che aveva reso quasi handicappato il braccio e la mano sinistri. Giampiero andò per fiume, come Santi Bailor Nando Meniconi, non per fare Tarzan ma soffrendo, sudando e vincendo con i remi.

Praticava anche il tennis e un giorno, dopo un doppio con l’amico Renato Venturini, venne da questo portato negli uffici Rai di via del Babuino. Qui governava Gilberto Evangelisti, che trovandosi di fronte quel gigante da oltre uno e novanta per chilogrammi novanta, domandò: ”Ah Renà, ma chi è ‘sto bisteccone”.

Messo il timbro, Giampiero ci ha frullato sopra la carriera e un po’ di vanità. Abbagnale o Maradona, Paolo Rossi o Panatta, Becker o i feddayn di Monaco, tutto faceva cronaca, radiofonica e televisiva, bella fresca, senza giri di prosa aulica anche con qualche gaffe (“bomba al nepal” resta storica), ma racconto di passione e di coinvolgimento, noi in acqua a remare, noi a fondo campo di dritto e poi rovescio, noi a bordo campo con il microfono a pendere dalle labbra di Paolo Rossi o fradici di champagne e acqua di doccia nello spogliatoio del Napoli maradoniano e scudettato.

AO, due vocali per riassumere Giampiero come un Pupone del giornalismo romano e italiano, vissuto, lui come tanti di noi privilegiati, tra Beppe Viola e Martellini, Brera e Arpino, Soldati e Ciotti e Ameri e Ferretti e le voci di una radio e di una televisione che vivevano di tutto con l’enfasi umana ma normale.

Giampiero ha accettato anche l’avanspettacolo divertendosi e creando maligne reazioni, poi, lentamente, ha preso a comprendere che gli ultimi cinquecento metri sarebbero stati velenosi, stavolta non aveva voglia di passare il traguardo; ha concluso la sua gara in carrozzina, segno di una resa che lo aveva trascinato con il diabete, nel buio e nel silenzio compatito.

Resta il ricordo di una fetta di vita bella, anche questa fuggita via come altri coriandoli bagnati, in questo tempo ormai di malinconia.

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