Con un pizzico di orgoglio ed un filo di ironia, mi viene da dire che proprio non lo so: non è una non risposta, tutt’altro. Infatti, posso dirvi com’è stato Pietro, inquilino di una struttura psichiatrica, o Massimo, giovane con autismo rimasto a casa con i genitori perché il centro diurno era chiuso, o Anita, che vive in comunità sociosanitaria per disabili. Perché li ho incontrati e li ho visti uscire dalle rotaie delle loro patologie, che avrebbero fatto prevedere comportamenti inadeguati, bizzarri o “problema”, per dirla delicatamente, e stare nella stessa condizioni di tutti, chiusi in casa. E viversela, per come sono. Prima persone e poi disabili, psichiatrici. Hanno vissuto la paura, il non senso, la speranza, l’assenza di un orizzonte temporale, la mancanza, il vuoto. Esattamente proprio come tutti.
Se li pensassimo, e un po’ troppo spesso lo facciamo, come dei bambini, diremmo che sono stati “bravi”, con quello sguardo e quel tono giudicante proprio degli adulti. E “bravi” perché non si sono comportati come noi avremmo immaginato si sarebbero comportati. Pietro, Massimo, Anita ci hanno sorpreso e stupito, perché non hanno fatto i “cattivi”. Eh sì, non ce lo aspettavamo.
Allora, rimanendo nel gioco delle categorie, quelle generali e generaliste, quella dei disabili, degli psichiatrici, dei bambini e dei “nostri” – che dicono non solo come li chiamiamo, ma anche come li rappresentiamo e quindi “trattiamo” – mi chiedo perché sono stati bravi. Abbozzo ipotesi, feriali e istintive.
Forse i “nostri” sono stati “bravi” perché sono allenati a vivere le situazioni difficili, perché la vita è da una vita che li mette alla prova e quindi si sono trovati pronti nel giocare la “partita COVID-19”?
Il papà di Cristiano, un giovane autistico “non verbale”, parola scientifically correct per dire che Cristiano non parla, mi ha detto una volta: “Mio figlio è autistico, non è scemo”.
Forse i “nostri” sono stati “bravi” perché hanno capito, perché non sono scemi, e di conseguenza a questa piena comprensione si sono comportati. E non solo hanno compreso (“preso con”), ma anche tenendo e contenendo (“tenuto con”) e spesso offrendo esempi di vita e di comportamento in tempi di COVID. Essere intelligenti (“leggere dentro”) è capacità più relazionale ed emotiva che razionale: i nostri sono lettori e percettori di emozioni e di atmosfere, e sentono, capiscono e di conseguenza agiscono e reagiscono.
Sì, penso sia così: non è che se uno è autistico, psichiatrico e disabile, non ha senso della responsabilità, comprensione di quello che accade e capacità di starci fisicamente ed emotivamente dentro. Pietro, Massimo e Anita non sono stati bravi: sono stati. Punto. Sono stati uomini e cittadini, prima di tutto. Il resto viene dopo, e conta meno, quando ci sono delle cose che devono contare di più. E il COVID 19 ha fatto capire che ci possono e devono essere delle cose che contano di più. E se così è stato per Pietro, Massimo e Anita, mi piace pensare che sia stato lo stesso per tutti gli altri nostri disabili e psichiatrici.