ADESSO CI PENSA DI MAIO A SISTEMARE LE COSE A MODO SUO

“Dialogo e deterrenza, doppio binario ma non doppio gioco”. Nei corridoi della Farnesina hanno sentito risuonare la frase per una settimana, ripetuta con impostazioni diverse: baritonale, colloquiale, in falsetto. Ogni tanto l’uomo dietro la porta dell’ufficio più prestigioso si interrompeva e smoccolava: quel ”doppio binario – non doppio gioco” è davvero difficile da mandare giù. Era Luigi Di Maio che studiava il discorso della vita, quello che in queste ore dovrà ripetere un paio di volte a Vadym Prystajko, ministro degli Esteri ucraino, e Sergej Lavrov, suo omologo russo.

Il segnale è chiarissimo, la crisi mondiale è a una svolta e la pace è salva: scende in campo il Metternich di Avellino. Con un seguito apprezzabile di dignitari, un doppiopetto all’altezza e lo sguardo penetrante imparato osservando Paola Taverna sul palco al tempo degli Unni, va a Kiev e a Mosca per rimettere le cose a posto.

Tocca a lui ripercorrere le orme calcate invano da mediocri leader come Emmanuel Macron, Joe Biden e Olaf Sholtz. Può farcela, l’importante è che a forza di imitare Beppe Grillo non gli scappi un “Vaffa” mentre passa in rassegna Il picchetto d’onore.

Misurato, educato e “bello ‘a mamma sua”, lo immaginiamo con il colbacco da Fantozzi, i Moon boots e il vocabolario cirillico-partenopeo nella borsa diplomatica, dove per ripetere la frase storica senza inciampare (“doppio binario – non doppio gioco”, Mario Draghi si è tanto raccomandato), ha messo pure Alexa. La missione è delicatissima e i giornali italiani ci stanno ricamando sopra con autorevole sussiego, manco si trattasse di Henry Kissinger. Di Maio è contento, compreso nella parte. Ha già anticipato ciò che dirà a russi e ucraini, di sicuro penzolanti dalle sue labbra: “Come Italia siamo determinati a passare a Mosca messaggi chiari, unitari, fermi, in stretto coordinamento con i nostri partner e alleati europei, Nato e Osce, che scoraggino qualsiasi aggressione o escalation”.

In attesa di verificare come farà Giggino a scoraggiare l’escalation davanti al Cremlino, agli ucraini che non vogliono saperne dei russi e ai miliziani del Donbass, non possiamo che ricordare i suoi trascorsi successi internazionali.

Nel 2019, durante un viaggio negli Stati Uniti, incontrò il consigliere per la sicurezza di Donald Trump, John Bolton. Se lo ricorda così bene da averlo scambiato (lo ha scritto nel best seller “Un amore chiamato politica”) per il cantante Michael Bolton. Chissà se gli cantò “When a man loves a woman”.

Abituato a informarsi sulla piattaforma Rousseau, al culmine di una visita a Shanghai chiamò il presidente cinese Xi Jinping amichevolmente Ping.

Quando era ancora uno steward dello stadio San Paolo, in missione per conto di Beppe Grillo dichiarò che il dittatore cileno Augusto Pinochet “era venezuelano”.

Più grave lo svarione in una lettera ufficiale a “Le Monde”. Dopo la crisi diplomatica da lui provocata (si travestì da gilet giallo e Parigi richiamò l’ambasciatore), scrisse che considerava il popolo francese “un punto di riferimento per la sua tradizione democratica millenaria”. Così millenaria che la monarchia, Versailles, le parrucche e Maria Antonietta (con le brioches) avevano dominato l’esagono fino al 1789.

Oggi è un’altra storia. E come annuncia la Farnesina, “Il ministro Di Maio ribadirà il pieno sostegno dell’Italia alla sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina, in stretto coordinamento con i partner dell’Unione europea e alleati Nato. Al contempo, confermerà il convinto appoggio italiano a ogni sforzo negoziale, anche nel quadro degli Accordi di Minsk e del Formato Normandia, al fine di preservare la stabilità e giungere ad una composizione pacifica e duratura del confronto in corso”. Resta da capire come la prenderà Vladimir Putin, che avrebbe preferito veder comparire il suo amico Silvio Berlusconi, e non uno dei duri e puri per i quali proprio il Cavaliere coniò la battuta: “Non farei pulire loro neppure i bagni delle mie aziende”.

Cercando di essere seri, tiriamo le somme: inevitabilmente, per molti italiani che hanno imparato a conoscerlo, Di Maio a Kiev è un po’ come Totò a Parigi, un film vagamente comico. Ascoltiamo con doverosa compunzione gli annunci dei tg, tratteniamo le risate e nonostante tutto proviamo a manifestare un certo ottimismo. Uno che ha sconfitto la povertà vuoi che abbia paura nel dare il colpo di grazia alla guerra? Parte fiero e carico di sé, l’importante è che non sbagli strada. Poiché appena arrivato al ministero degli Esteri definì la Russia “un paese del Mediterraneo”, la possibilità che finisca a tenere l’imperdibile sermone a Cipro non è per niente da scartare.

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