L’ANGOSCIA DEL COVID IN UFFICIO

di GHERARDO MAGRI – In azienda abbiamo celebrato la giornata della memoria Covid il 13 marzo, in coincidenza con il primo dei quattro lockdown che si sono succeduti via via su base volontaria. L’ultimo è attualmente in corso, perché il criterio scelto è stato “zona rossa= chiusura degli uffici” (la sede è a Milano), che ci costringe a un apri-e-chiudi magari fastidioso, ma che garantisce la massima sicurezza per la salute delle persone.

Fin dall’inizio il criterio guida è stato salvaguardare quanto più possibile i colleghi dal contagio. Abbiamo applicato tutte le regole previste e non solo: controllo della temperatura, mascherine (ora FFP2) e gel a disposizione, distanza di tre metri tra una scrivania e l’altra, che ha comportato un contingentamento massimo di persone, tampone obbligatorio per il rientro dopo i lockdown, sanificazione completa giornaliera del posto di lavoro.

L’abbiamo presa molto sul serio, tanto che la decisione di chiudere quando non era strettamente necessario è stata condivisa e voluta a maggioranza. Non avendo siti produttivi, le scelte sono state facilitate dal punto di vista operativo.

Per non perderci d’animo in un anno così polverizzato dallo smart working forzato, abbiamo scoperto la forza della parola e della comunicazione autentica, che ha fatto la grande differenza. L’invenzione del “Diario di Bordo” giornaliero nei periodi di chiusura, in cui raccontare l’esperienza in diretta e scambiarci opinioni, ansie e speranze, è stato un collante straordinario. Insieme a una serie di call di reparto senza agenda specifica, così, solo per parlarci, siamo riusciti a sentirci molto uniti e solidali nonostante tutto.

Però non si è mai preparati al peggio. E il peggio può scegliere di insinuarsi tra di noi in ogni momento. Un giorno, ci informano del ricovero improvviso di Mario, un collega molto benvoluto e una colonna storica dell’organizzazione. Purtroppo il contagio è molto serio, preso dal papà anziano, e, in breve tempo, gli riscontrano una grave polmonite bilaterale, tanto che presto il casco con l’ossigeno non gli basta più. Viene trasportato d’urgenza dall’ospedale di Monza al Portello di Milano, dove lo intubano.

Le informazioni circolano fin dall’inizio tra i colleghi, e scatta la solidarietà vera. A turno fanno l’assistenza alla moglie, sia psicologica che pratica, anche per le necessità spicciole nel fare la spola con l’ospedale, visto che lei non ha la patente. Una fitta rete di messaggi e piccoli aiuti viene organizzata spontaneamente. E’ il tema principale del “Diario”.

L’intubamento dura quindici lunghissimi giorni. Giorni di angoscia vera. Di paura maledetta, inutile nascondercelo. Ma Mario ne esce vivo. Purtroppo, nel periodo del ricovero suo papà si aggrava e muore. Per delicatezza nessuno ovviamente svela a Mario la triste verità. Solo quando esce dalla terapia intensiva viene avvertito. Sono momenti terribili, anche se in qualche modo se l’aspettava.

Il suo ritorno alla vita riempie inevitabilmente di gioia l’organizzazione. Si moltiplicano i messaggi di evviva, condivisi apertamente da tutti. Le prime parole di Mario, rotte dall’emozione, alla prima call utile con i colleghi, descrivono la tremenda esperienza vissuta, in cui – confessa – si è aggrappato agli “unici segni di vita, rappresentati dagli occhi degli infermieri e dei dottori dietro gli occhiali protettivi”. Ringrazia, commosso, i colleghi che l’hanno fatto sentire parte di una grande famiglia. E ci dice che ha una gran voglia di tornare a lavorare.

Questa storia pesantissima spiega meglio di qualunque trattato scientifico che cosa s’intenda quando un’Azienda da semplice datore di lavoro si trasforma in Azienda Umana, composta da persone che vivono il lavoro e condividono però anche pezzi di vita. Il ritorno di Mario ce lo ricorderà sempre. Bentornato amico, sei uno di noi. Ci teniamo a te.

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