DOPO-COVID, PIU’ CHE MEETING SONO RIMPATRIATE

Dalla primavera di quest’anno in tante aziende c’è stata la riscossa dei “primi meeting in presenza”, dopo anni di videocollegamenti algidi e noiosi.

Ancora con discrete cautele, anche se in realtà abbondantemente ignorate, la gente si è riunita di nuovo e abbiamo assistito ad una vera ubriacatura di amarcord, strette di mano, pacche sulle spalle, abbracci, sonore risate e senso di appartenenza tipica dei commilitoni veterani. Una bolgia di sentimenti in cui l’antipatico diventa simpatico, il grande capo ti sembra un tuo amico e il perfetto sconosciuto si trasforma in un compagno d’armi. L’atmosfera è pervasa da una melassa di buoni sentimenti, si respira una leggera narcosi da sopravvivenza che ti fa vedere tutto bello, tutto rosa. Anche i contenuti degli incontri, necessariamente più veritieri e a volte non positivi, che ti portano con i piedi per terra, perdono un po’ della loro incisività, perché prevale l’idea che i problemi siano lì per essere risolti e che una volta tanto si lavori tutti per la stessa causa.

Sfumature diverse se sono riunioni internazionali o locali. Nel primo caso abbonda l’enfasi e si tende a caricaturare il momento, accentuandolo di toni trionfalistici. Bello vedere gli atteggiamenti dei popoli latini e di quelli frugali, un po’ a contrasto tra loro ma ugualmente desiderosi di fare bisboccia. Si cerca di recuperare efficienza con agende fitte, anche se le pause break, gli aperitivi e le cene sono i momenti più sentiti in assoluto. Una volta è successo che per rispettare i tempi ci sia voluto un richiamo ufficiale per riportare le persone in aula, tanto era il piacere di vivere una convivialità spontanea. Quando invece parliamo di Italia, l’esperienza ci dice che le situazioni sono molto più genuine e autentiche, si passa dai racconti accorati agli sfottò più arguti, dalle considerazioni affettuose ai complimenti sinceri. Ho visto persone che davano il meglio di sé come poche volte in passato, con un messaggio subliminale del tipo “noi siamo così, bello poterlo mostrare”. Nessuno deve forzare la mano, noi sappiamo badare molto bene a noi stessi, tanto per citare il nostro Presidente.

Si tratta di una sorta di extrabonus di ottimismo, che deriva esclusivamente dal fatto di ritrovarsi come esseri umani dopo la tempesta e dalla constatazione che qualcosa di buono si è combinato comunque. Bisogna sfruttare il momento, certamente piuttosto effimero e di corta durata, ma mai niente viene per caso. Chi è smart si darà da fare per riallacciare i rapporti con i colleghi malmostosi, per far ripartire progetti incagliati, per proporre collaborazioni coraggiose, per spingere sugli obiettivi qualitativi che privilegiano comportamenti virtuosi. I manager visionari cercheranno di estrarre la quintessenza di questo fenomeno collettivo e di riprodurlo anche in ambiti più standard. Sfida ardua ma non impossibile, che si fonda in primis sulla consapevolezza e dell’importanza del “carpe diem”, ma anche sull’ambiziosa ricerca della ricetta segreta delle dinamiche umane in certe situazioni. Non è da analizzare solo il momento in cui siamo entrati nella pandemia, c’è anche quello in cui ne siamo usciti.

Si vedono a occhio nudo le differenze tra le aziende che dimenticano in fretta le esperienze fatte e vogliono girare pagina a tutti i costi, e quelle che, invece, vogliono riflettere e fermarsi a capire cosa è successo prima di ripartire pancia a terra. Come dire che le prime non imparano mai niente dalla storia, le seconde si proiettano nel futuro con una base solida, e sicuramente jsaranno pronte per le (inevitabili) prossime emergenze.

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