PER FORTUNA LA CHIESA NON E’ DEI PRETI

di DON ALBERTO CARRARA – Parlo dal mio punto di osservazione: nel duomo di Bergamo vengono ordinati tre sacerdoti “novelli”. L’anno scorso era stato ordinato un solo sacerdote. Da uno a tre: gli ottimisti a oltranza possono essere soddisfatti. Ma si ha l’impressione che, soprattutto in questo caso, l’ottimismo sia mal collocato. Nei giorni scorsi, mentre si aspettava di iniziare la celebrazione della consueta messa quotidiana, un canonico, monsignor Francesco Pellegrini, ordinato nel 1955, ha ricordato che quell’anno i nuovi sacerdoti erano trentotto. Da trentotto a tre. Anche i pessimisti hanno molte ragioni per continuare a esserlo.

Ma queste variazioni sui numeri dei preti mostrano, insieme con la passione di chi li commenta, anche limiti e problemi della Chiesa di oggi.

Intanto esiste il rischio che si continui a pensare che i problemi della Chiesa coincidano con i problemi dei preti. Per cui: molti preti uguale Chiesa florida, pochi preti uguale Chiesa depressa. È tutto da dimostrare. Soprattutto quel modo di pensare conferma una visione clericale della Chiesa, la quale, quando coincide con i preti, è in realtà sempre povera, anche se ricca di personale ecclesiastico.

Bisogna dirlo con forza: la Chiesa popolo di Dio è ricca se è varia, soprattutto se sa guardare il mondo (politica, economia, cultura…) con uno sguardo che può venire soprattutto dal modo di vedere laico, di chi lavora, ha famiglia, vive nel “mondo”. Laico, naturalmente, nel senso ecclesiale del termine: i fedeli, quelli che hanno “soltanto” l’incommensurabile ricchezza di avere la fede.

Il rischio del clericalismo è inquietante perché, oggi, i più clericali tra i preti non sono i vecchietti, pasdaran del Concilio Vaticano II, entusiasti delle riforme della Chiesa, di Papa Roncalli e Papa Bergoglio, ma i giovani. Mi sono state mandate, un paio di giorni fa, delle foto di una processione, con un vistoso parroco in testa, parroco ancora giovane, con il suo bel tricorno (quel vecchio berretto dei preti con il fiocco), cotte con pizzi lunghissimi, sontuosi paramenti d’altri tempi. Per la cronaca, la processione ha avuto luogo nella parrocchia di uno dei tre preti novelli. La cosa non dice molto, ma viene il sospetto che quel poco supponga un molto che è un preciso modo di vedere la Chiesa. Si pensa cioè che la Chiesa debba essere radicalmente nostalgica, che debba parlare al mondo solo uscendo dal mondo. Se questi pretini di oggi fossero stati tra gli amici di Gesù, non avrebbero scritto il Vangelo nell’inglese di allora, il greco, la lingua di tutto il mondo mediterraneo, ma nell’aramaico, la lingua che Gesù parlava nei suoi rapporti quotidiani. Anzi, se il parroco con il tricorno si fosse trovato, per caso, a Gerusalemme e Gesù lo avesse chiamato a seguirlo, il Vangelo lo avrebbe scritto in dialetto.

La posta in gioco è enorme. Se si torna continuamente al Vangelo si è continuamente provocati a cambiare. Se invece ci si abbarbica alle nostre certezze, ciò che resta sono le nostre tradizioni, e quello che cambia, per adattarsi alle nostre tradizioni, è il Vangelo. Ma, se davvero fosse così, e se lo fosse radicalmente, resterebbe da porsi un domanda, semplice e drammatica: in quel caso saremmo ancora cristiani?

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