ZAVOLI, CHE NON SI METTEVA MAI AL CENTRO

di TONY DAMASCELLI – La vita è dove stai. Lo ha scritto Sergio Zavoli, che adesso risulta assente da quella vita che ha percorso quasi per un secolo, di speranza e di buio.

Se ne va un pezzo di giornalismo grande e sussurrato, in un mondo e in un tempo dove l’urlo, lo strepito, l’insulto sono elementi distintivi che non suggeriscono certamente il pensiero e la riflessione.

Erano, invece, queste le vitamine che Zavoli sapeva prescrivere ogni pomeriggio, quando il televisore trasmetteva in bianco e nero e vedevi corridori affaticati, ingobbiti, poveri di denari ma ricchissimi di umanità. Pedalavano la loro esistenza e Zavoli la seguiva, in motocicletta o a bordo di una vettura “Rai”. C’era Brera e c’era Raschi, c’era Vergani e c’era Ruggero Radice detto RaRo, il Clark Gable della “Gazzetta del Popolo”, c’era il gruppo e c’era il fuggitivo, il vincitore e lo sconfitto, erano tutti narratori del Giro, le loro voci non disturbavano mai, sullo sfondo il popolo, sotto il palco, ad ascoltare come in chiesa, a volte partecipando alla funzione approfittando di un microfono volante.

Sergio Zavoli ha mantenuto lo stesso tono di voce davanti alla nenia di Italo Zilioli o alla perfidia di Mario Moretti terrorista assassino, non si è scomposto per le mattane di Vito Taccone come per la miseria straziante delle favelas brasiliane, ha saputo ascoltare, occupandosi dell’uomo e mai del personaggio, godendo dell’immaginazione che fu la dote principale del suo amico di sempre, accanto al quale ha chiesto di essere sepolto: Federico Fellini.

In fondo tutta la vita di Zavoli, come quella del regista, sono stati un amarcord, una corsa a tappe per ripercorrere le strade dell’esistenza di questo nostro Paese bellissimo e insieme cupo, euforico e malinconico, come la corsa di un ciclista, annebbiato dal tornante in salita, frustato dai colpi di vento nelle discese, ubriaco verso il traguardo finale.

Anche nella fotografia della scuola elementare Zavoli stava defilato, ultimo a sinistra, per rispetto, per disciplina, la stessa che avrebbe poi conservato anche quando intervistava atleti e attori, politici e imprenditori, omicidi e prelati, gente comune, restando di fianco, mai imponendo la propria persona e personalità. Era sfollato da Ravenna a San Marino e poi a Rimini, passò a Perugia, quindi a Roma, l’Eiar aveva canoni precisi, assumeva giovani intraprendenti ma educati nel dire e nel fare.

Il suo esordio radiofonico coincise con una partita di football, Nicolò Carosio chiedeva soldi e un contratto più sostanzioso. Dinanzi ai capricci del Nick il direttore Piccone Stella consultò Vittorio Veltroni e venne affidata al giovane Sergio una serie di documentari, seguendo un’idea dello stesso Zavoli, che ne aveva parlato con Cesare Zavattini. L’Italia devastata dalla guerra era il teatro ideale per qualunque racconto. La “Rai” rappresentava il punto di riferimento dell’informazione, la “Rai” non politicizzata, non spaccata da fazioni e correnti ma il respiro dell’Italia che cercava di rinascere.

Venne la televisione, venne dunque l’immagine dopo la voce, venne, nel maggio del sessantadue, il “Processo alla tappa”, sette anni di pomeriggi trascorsi in attesa di, con la storia di Lucillo Lievore, quella di Pambianco, le parolacce del camoscio d’Abruzzo, al secolo Taccone, vennero dunque dibattiti, immediati, anche accademici ma erano quadri di sport e di vita quotidiana, senza l’omaggio allo sponsor, semmai, al massimo, alla trattoria del paese dove con Brera e Vergani si sarebbe conclusa la tappa personale.

Venne anche la “Notte della repubblica”, tramonto dopo l’alba, storia difficile e aspra di un Paese nel buio del terrore. Zavoli ha attraversato l’Italia e gli italiani, ha riempito, con eleganza, un album di immagini gentili, di figure, mai di figurine, ha concluso la carriera al vertice della “Rai”, per ritirarsi tra le poesie e nell’affetto di Alessandra, alla quale si unì all’età di anni novantaquattro, come l’ultimo bacio di un lungo amore.

Di Sergio Zavoli conservo una poesia che è, poi, il senso vero e, insieme, leggero, della sua vita: “Ombra mia, ti allontani leggera come un’eco, ti liberi, svanisci, lo sento che ti perdo. Ora mi vestirò dei tuoi colori per essere tutt’uno almeno qui dove ci separiamo. Mia sembianza, io sono stato, a volte, la tua ombra, tu non mi sbugiardavi, si stava insieme, come ricorderai, senza sapere chi dei due era l’altro”.

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