VIVA CECILIA, MA PERCHE’ DIMENTICARE LE DONNE CONDANNATE A MORTE IN IRAN?

Lo scambio non riconosciuto tra Cecilia Sala e Abedini ci ha fatto conoscere un po’ più da vicino il carcere di Evin, a Teheran, per quanto possibile. È un carcere spietato, del quale la giornalista italiana ha conosciuto una parte crudele, ma probabilmente non la più feroce. È un carcere di cui ci parlano da anni gli attivisti imprigionati, un carcere che è l’emblema della repressione che porta ogni giorno alla cancellazione dei diritti di persone innocenti e fornisce un considerevole contributo al numero dei condannati a morte in Iran.

Nel 2024 in Iran ci sono state 901 esecuzioni, 34 donne impiccate. Nei primi giorni del 2025 sono già 40 le pene capitali portate a compimento e a suo modo è un indice del timore che gli integralisti iraniani stanno vivendo. Vogliono spaventare, terrorizzare, sempre di più, perché si rendono conto che i dissidenti non demordono, non hanno paura di morire, non tacciono.

Così, mentre noi gongoliamo per la liberazione di Cecilia Sala, qualcuno in Iran muore assassinato, anche ora, in questo momento e poi tra un’ora e certamente domani. Pakhshan Asisi (nella foto), ad esempio, è un’operatrice umanitaria e attivista del Kurdistan iracheno e morirà. In carcere da un anno e mezzo e condannata a morte ora in via definitiva, è una voce forte e impenitente del movimento “Donne, Vita, Libertà”. E morirà.

Abbiamo imparato, e i segnali continuano a lasciare intendere questo, che il regime iraniano non è del tutto impermeabile alle sollecitazioni del mondo. C’è sempre un’idea di tornaconto sullo sfondo, ma come ci ricorda Greta Privitera sul “Corriere delle Sera”, ad esempio il rapper Toomaj Salehi è tornato libero, dopo essere stato condannato a morte per “corruzione della terra”, e grazie alle sollecitazioni dei mezzi di comunicazione, ufficiali o meno che siano.

E allora, pensare qualcosa di bello, di concreto, e portarlo a compimento, provare a dare un contributo vero per provare a cambiare la storia, si diceva. Sarebbe bello, così come sarebbe bello pensare che al di là di come è avvenuta, la liberazione di Cecilia Sala non restasse chiusa nel recinto delle imprese di cui andare fieri, ma diventasse l’innesco di un intento forte. Sarebbe bello fosse il mattone sul quale provare a costruire un tentativo di pressione, insieme agli altri stati europei, per cambiare la storia. Una volta fatto il compitino e tornati a girare la testa dall’altra parte, sarebbe bello invece provare tutti a scrivere il proprio nome sul registro degli indisciplinati, di quelli che non ammettono e non vogliono ammettere quelle condanne a morte.

Noi abbiamo le nostre grane, tra ponti sullo stretto, treni che non si muovono, terzi mandati, la sicurezza e altro ancora, ma sarebbe bello ricordare che nessuno domattina si sveglierà con una condanna a morte per come la pensa e per come la dice. Non accadrà, ma i sogni son desideri: non si tratta di dimenticare i minuscoli e i grandissimi problemi del nostro Paese e degli altri, basterebbe non dimenticare quelle condanne a morte e dare il proprio contributo, costante, spietato.

Non accadrà, ma sarebbe bello, sarebbe un mondo migliore. Così, in fondo chi può dire che la vera rivoluzione non stia nell’essere candidi e giusti?

Uno Stato candido e giusto, un sogno e un desiderio, ecco.Pubblicità

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