VENETO: TAMPONI, NON “CIACOLE”

di ARIO GERVASUTTI – Vo’. Due lettere, un apostrofo. Un buco con una regione intorno. Da lì tutto è cominciato, in Veneto, e lì tutto sta per finire. Zero contagiati nel paese epicentro del contagio, tra tanti numeri quello che più fa sperare.

Come c’è riuscito, il Veneto? Perché altrove è andata diversamente? Fortuna, sicuramente. Ma non solo. Un episodio vissuto in prima persona aiuta a capire. Alle 6 di pomeriggio del 21 febbraio al mio giornale arriva la notizia: ci sono due contagiati da Coronavirus a Vo’ Euganeo, provincia di Padova.

Riflesso automatico: mandiamo due giornalisti e un fotografo, che un’ora dopo sono nella piazza già deserta del paese. Due parole con il sindaco, con il barista, con un paio di passanti, quanto basta per imbastirci due pagine. I colleghi, vista l’ora, vanno a scrivere a casa senza passare per la redazione. E’ un colpo di fortuna, perché a mezzanotte arriva la telefonata del governatore, Luca Zaia:

“Avete mandato qualcuno a Vo’? Ditegli di non muoversi di casa: da adesso è in quarantena e con lui i suoi famigliari, domattina andranno a fargli il tampone”.

E così è stato. Negativi, per fortuna; ma da quel giorno non si sono più mossi da casa, perché anche gli altri 5 milioni di veneti, una settimana dopo, si sono chiusi dentro e da allora non sono usciti se non per fare la spesa. Il resto, è cronaca.

L’Oms, l’Iss e il governo nazionale non vogliono fare tamponi? Il Veneto li fa, a tappeto. Anche e soprattutto ai vecchi, trattati altrove come carne da macello nelle trincee: 25mila tamponi e test rapidi su 33mila ospiti delle case di riposo. Fatti, non chiacchiere. E già che c’erano ne hanno fatti 24mila ai 30mila operatori che negli ospizi convivono con i “veci”.

Il governo vieta genericamente di allontanarsi dalla “prossimità” della propria abitazione? Il Veneto chiarisce che non si superano i 200 metri. Un limite chiaro e preciso, a prova di tonti e di finti tonti. Tutti ricoverano i positivi in ospedale? Il Veneto ricovera solo chi ha anche altre malattie, cioè i più deboli, gli altri si curano in isolamento a casa. Le mascherine sono volontarie? Il Veneto decreta che sono obbligatorie, come i guanti.

Dice l’obiettore: ma così ognuno va in ordine sparso, non va bene. E invece è proprio questo il segreto: il governo centrale fissa un minimo comune denominatore, poi a livello locale si aggiunge – aggiunge, non toglie! – in base alle specifiche esigenze. Pretendere di imporre le stesse regole a Belluno e a Lampedusa, stabilendole peraltro a Roma, è quanto di più assurdo ci possa essere. Le regole minime, quelle sì. Ma ha senso che si stabilisca a mille chilometri di distanza se le spiagge devono essere ripulite, o se i boschi in montagna devono essere tagliati? Sarebbe come se decidessero – che so – a Berlino o Amsterdam se l’Italia ha o non ha bisogno di aiuti economici per affrontare i danni del Coronavirus. Assurdo, vero? Nascerebbero equivoci e incomprensioni, che in questo momento non hanno ragion d’essere. Un esempio?

Un autorevole (ma sì, siamo generosi)  quotidiano nazionale così oggi sintetizzava l’ultima ordinanza di Zaia: “Jogging e picnic, in Veneto l’apripista Zaia allenta le misure. I cittadini possono uscire da casa ma soltanto con la mascherina”. E giù commenti, opinioni, considerazioni da social.

Piccolo particolare: è tutto falso. Zaia non ha allentato le misure per il semplice motivo che non può farlo, neanche volendo. Semplicemente, alla luce degli ulteriori decreti del governo, ha allineato il limite dei 200 metri alle indicazioni nazionali. Il jogging c’era prima intorno al caseggiato, e c’è adesso sempre intorno al caseggiato: non più entro 200 metri, ma “in prossimità”. Se corri a un chilometro da casa, ti stangano.

I picnic? Falso. Se uno voleva farsi un barbecue sul terrazzo o in giardino, lo poteva fare anche prima. Per sé e la propria famiglia, ovviamente: non per l’intero quartiere. Semplicemente, non era specificato dal decreto nazionale. Adesso lo è.

I cittadini possono uscire da casa? Falso. Lo possono fare esattamente nella misura in cui era previsto prima: per inderogabili motivi di lavoro autorizzato o per fare la spesa o andare in farmacia. Solo che adesso è obbligatorio farlo con guanti e mascherina. Dove sono gli allentamenti delle misure? Da nessuna parte. Ma chi non vive in Veneto, ha una percezione completamente travisata della realtà.

E forse il segreto, il motivo per cui le cose sono andate diversamente è proprio questo: Zaia e i veneti parlano la stessa lingua, si capiscono senza bisogno di interpretazioni. Anche quando inciampano in sfondoni, come quella battuta sui cinesi che mangiano i topi, all’inizio dell’emergenza. Politicamente scorrettissima, è evidente. Ma il succo era semplice: le norme igienico-alimentari di alcuni Paesi hanno bisogno di essere riviste.

E anche adesso, quando Zaia dice: “Di fatto qui il lockdown è a metà”, fuori capiscono che lui ha dimezzato le chiusure di fabbriche e negozi (cosa ovviamente falsa), mentre i veneti capiscono che tra deroghe (dei prefetti) e decreti del governo centrale il 64% delle attività è già in funzione. E’ un dato di fatto, non un’autorizzazione.

Dice l’obiettore di cui sopra: ma allora non sa spiegarsi bene, questo Zaia. Può darsi, anche se in Veneto lo capiscono (quasi) tutti, a quanto pare. Ma va tenuta presente una cosa: se per farsi capire c’è bisogno di un decreto di quarantasei pagine e di una settimana per scriverlo, meglio andare per le spicce. Come quella telefonata: “Avete mandato qualcuno a Vo’? subito in quarantena”. PuntÀÀo. E le strade di uscita e ingresso a Vo’, così come le porte del vicino ospedale di Schiavonia, un’ora dopo erano sbarrate. Poche ciàcole, dicono in Veneto. E almeno per questo non credo servano traduzioni.

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