Gli agricoltori sono di nuovo “agitati” ed in questi giorni hanno ripreso a protestare, a distanza di un anno dalle manifestazioni che hanno scosso il mondo agricolo italiano.
Puglia, Emilia Romagna e Piemonte sono le prime regioni interessate da nuovi presidi dei produttori agricoli, alle prese con i problemi atavici che, malgrado promesse (da marinaio) avanzate da politici in combutta con associazioni di categoria, sono lungi dall’essere non solo mantenute, ma anche affrontate seriamente.
L’unico elemento di novità registrato da un anno a questa parte è l’inabissamento, immaginiamo forzato, del ministro Lollobrigida, che da qualche mese a questa parte si segnala per la sua assenza dai media nazionali, lasciandoci a secco delle sue micidiali dichiarazioni (“i poveri mangiano meglio dei ricchi” docet).
La situazione continua ad essere preoccupante: negli ultimi vent’anni, oltre la metà delle aziende agricole e della pesca ha chiuso i battenti, con gravi ripercussioni sull’occupazione e sul territorio. Un’azienda agricola su quattro ha cessato l’attività e oltre 850.000 ettari di terreno sono stati abbandonati.
Prezzi equi per le produzioni agricole, meno burocrazia, infrastrutture idriche e non, sicurezza nelle aree rurali, contrasto all’importazione indiscriminata di prodotti agricoli provenienti da paesi che non hanno i nostri stessi standard produttivi, un argine alla sostituzione dell’attività agricola con quella energetica (fotovoltaico), costi di produzione sostenibili e ricavi migliori sono le principali richieste degli agricoltori.
Tutti motivi condivisibili e non solo dal mondo agricolo.
Questi sono i punti salienti su cui esiste una comunione di intenti tra gli autori della protesta, anche se con accenti diversi a seconda delle regioni e dei settori di appartenenza.
Ma esiste un altro elemento che accomuna tutti gli agricoltori e riguarda il palese tentativo, portato avanti soprattutto in sede UE, di sostituire il modello agroalimentare tradizionale, e quindi di società, con un nuovo sistema fondato sulla produzione sintetica e artificiale del cibo.
Farina di insetti, carne e latte artificiali, stanno velocemente passando l’iter autorizzativo e a breve saranno presenti in grande stile sugli scaffali, sponsorizzati dall’èlite economica mondiale che, per non saper nè leggere nè scrivere, nel frattempo si accaparra terreni agricoli in tutto il globo.
La disarticolazione del tessuto produttivo agricolo è un passo decisivo per raggiungere questo obiettivo, e trova terreno fertile anche per l’assoluta inconsistenza delle associazioni istituzionalmente deputate a perorare le istanze degli agricoltori.
Coldiretti & co. sono legati a doppio filo a una classe politica (di qualsiasi colore) che garantisce le loro (neanche piccole) rendite di potere, a cui viene richiesta in cambio una sponda finalizzata a non mettere in discussione i desiderata di Bruxelles, sempre più organo ufficiale dell’elite economica mondiale.
Non avendo titoli per suggerire i metodi di protesta più efficaci, mi sento di esortare i protagonisti della vicenda a parlare con una voce quanto più univoca possibile, che concentri in pochi punti le ragioni della contestazione.
Ma sono anche fortemente preoccupato che anche questa nuova tornata di proteste si risolva come le precedenti: nel nulla.
Occorre non ripetere gli errori del passato, quando soggetti inqualificabili hanno sacrificato le esigenze di tanti per piccoli tornaconti personali. Questa sarebbe la fine, non solo per l’agricoltura, ma per il modello di vita mutuato nel corso dei secoli dalla civiltà contadina.
Diceva un politico di lunghissimo corso ormai passato a miglior vita: “I manicomi sono pieni di soggetti che si credono Napoleone o che sono convinti di risanare il bilancio delle Ferrovie dello Stato”.
Non vorrei aggiungere a queste due categorie gli agricoltori che credono alle promesse dei politici che si accordano con Coldiretti.
Altrimenti, una promessa vi seppellirà.