UNA SERIE TV COME MASTER IN ADOLESCENZA

Una mattina, all’alba, la famiglia Miller, residente in un sobborgo inglese, viene svegliata di soprassalto dall’irruzione della polizia. Gli agenti non chiedono permesso: sfondano la porta e, armi ad alzo zero, setacciano la casa fino a quando non infilano le manette ai polsi di un “individuo sospettato di omicidio”. E’ questi un ragazzo di 13 anni: Jamie.

Ecco la premessa – e la scena d’apertura – di “Adolescence”, la miniserie britannica al momento più vista, anche in Italia, sulla piattaforma streaming Netflix.

Jamie, lo scopriamo nel primo episodio, è accusato di aver pugnalato a morte una ragazza che frequenta la sua stessa scuola. Accusa che i suoi genitori rifiutano d’istinto, pensando a un errore, e che lo stesso Jamie, interrogato dagli agenti, respinge risolutamente. Ma, naturalmente, c’è un “ma” e senza anticipare a potenziali spettatori le svolte e le sorprese della trama, possiamo dire che “Adolescence” parte da una circostanza estrema per affondare presto in un terreno a molti familiare e tuttavia ingombro di ombre, misteri, inquietudini. In quattro episodi, “Adolescence” esplora il rapporto genitori-figli, i profondi malumori dell’adolescenza, l’incapacità della società adulta – articolata in strutture istituzionali che vanno dalla famiglia alla scuola fino alla politica – di rapportarsi con il mondo dei ragazzi e, infine, analizza la penetrazione, a dir poco problematica, dei social media in entrambi gli ambiti.

La serie non è articolata in una trama lineare e presto lascia che il classico interrogativo del “giallo” (“è stato lui, non è stato lui?”) si dissolva nella mente dello spettatore perché questi si concentri su problemi più importanti. Di fatto, ogni episodio esamina il fatto da un punto di vista differente: il primo racconta dell’arresto di Jamie e della sua assimilazione nel sistema investigativo e giudiziario; il secondo osserva gli investigatori nella loro visita alla scuola, nel tentativo di trovare lì, tra i banchi, il più importante pezzo mancante del puzzle (il movente del delitto); il terzo è interamente dedicato a un colloquio tra Jamie e la psicologa incaricata di stendere una perizia sul suo stato mentale; il quarto segue infine la restante famiglia Miller – padre, madre e figlia più grande – nel tentativo di vivere una normale giornata di festa (è il cinquantesimo compleanno del padre) solo per venir ricacciata nel suo guscio dall’ostilità sociale che ormai l’assedia ovunque.

La critica ha individuato la forza di “Adolescence” nella bravura degli attori (su tutti l’affermato Stephen Graham, anche ideatore della serie, e il giovanissimo, brillante Owen Cooper nel ruolo di Jamie) e nel virtuosismo tecnico che ha permesso a ogni episodio di essere girato integralmente in piano-sequenza, senza stacchi cioè, restituendo così la drammaticità e l’urgenza del racconto, vissuto dagli spettatori a ridosso degli interpreti. Ma la superiore potenza di “Adolescence” sta nell’aver restituito senza compromessi alla televisione la capacità di affrontare un tema eterno e attuale insieme, senza la pretesa di lanciare messaggi, proporre soluzioni e offrire consolazioni omeopatiche.

“Adolescence” non è un’accusa alla società, alla famiglia, alle istituzioni e neppure ai social media. E’ invece la testimonianza di come tutto questo rilanci e amplifichi il problema della difficile (impossibile?) comunicazione tra ragazzi e adulti, è il faro che illumina la voragine semantica che separa i due mondi e lascia intuire come il linguaggio, i valori e le ricadute psicologiche che tormentano gli adolescenti siano una nebulosa non solo difficile da esplorare ma persino problematica da individuare. L’adolescenza non è un tema nuovo per la tv, né tantomeno lo sarebbe per il cinema, il teatro e la letteratura, ma è nello stesso tempo un tema “sempre” nuovo, perché si ripropone generazione dopo generazione in forme diverse.

Chi va in cerca dell’ultima, più aggiornata e perfino “trendy” tendenza psicopatologica, sentirà qui parlare di “incel”, i “celibi involontari” che formerebbero una subcultura online carica di risentimento e ideologicamente orientata a sostenere una sorta di “supremazia maschile”, ma l’etichetta dell’ultimora rischia di essere fuorviante. Al cuore di “Adolescence” ci sono temi umani fondamentali, antichi e tuttavia attuali, come le responsabilità genitoriali, l’identità personale e il vissuto sessuale. Montagne psicologiche che ognuno di noi, una volta o l’altra, ha dovuto scalare: ci saremo anche riusciti, ma dentro di noi sono certamente rimasti strascichi che “Adolescence”, meritoriamente, ci impone di riesaminare.Pubblicità

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *