UNA LETTERA E’ PER SEMPRE

di FABIO GATTI – Magari non lo si nota nemmeno più, ma sopravvive una tradizione, oltre agli addobbi e ai regali, alle luci e al panettone, che ancora contraddistingue dicembre da ogni altro mese dell’anno, e ne sono protagonisti i bambini e complici i loro genitori. Si tratta delle lettere: i ragazzini prendono in mano carta, penna e inviano a Gesù Bambino o a Babbo Natale desideri e aspettative, volontà e speranze. L’aspetto più curioso di questo rituale è il suo resistere ai tempi, nonostante si tratti di tradizione fuori tempo massimo: in quale altro momento dell’anno si scrivono lettere?

È una delle tante contraddizioni del nostro tempo: si scrive tantissimo ma non si scrive veramente, semmai si digita. Mai come in questo 2020, anno di Covid e di relazioni a distanza, si è così tanto in contatto gli uni con gli altri attraverso la mediazione scritta, ma mai come in quest’epoca si è di fatto abbandonata una delle attività più longeve e antiche che l’uomo abbia praticato: scrivere e inviare, affidare emozioni e stati d’animo, progetti e intenzioni a viaggi del cui buon esito non si è mai certi fino in fondo, se non a risposta ricevuta. Il tempo natalizio porta con sé anche la piccola sorpresa di rivitalizzare una tradizione antica, sempre attuale nella sua essenza.

Scrivere lettere è sempre stato un bisogno dell’uomo, perché risponde a una delle sue esigenze vitali: essere in contatto con i suoi simili. Le lettere implicano una relazione e un legame, anche se ogni lettera, in fondo, è scritta anzitutto per chi la scrive. È un dialogo con se stessi prima che con altri: chiamata ad accogliere riflessioni sulla realtà, sul vissuto quotidiano, su vicende sperimentate in prima persona, è prima di tutto uno sfogo esterno all’interiorità del mittente.

Cicerone, durante il suo esilio, diceva di scrivere, sia pure lasciandosi ogni volta andare alle lacrime, per consolare se stesso, distraendosi da una penosa condizione; Lucio Dalla, a duemila anni di distanza, al suo lontano corrispondente dirà più o meno la stessa cosa: «Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’». Alle lettere Jacopo Ortis, o forse Ugo Foscolo, ha affidato aspirazioni e delusioni di un’intera generazione, i sogni rivoluzionari infranti contro il tradimento di Napoleone; Emma Bovary e altri amanti hanno alimentato le loro tragiche passioni con lettere clandestine, affidate a servizi postali improvvisati e compiacenti, accompagnandone ogni volta l’invio con l’attesa parossistica di una risposta cruciale; epistole riscoperte e ritrovate, magari a distanza di decenni, hanno svelato lati nascosti e segreti inconfessabili, vizi e virtù privati, di scrittori e statisti, uomini pubblici o artisti; lettere criptate o in codice, in lingue sconosciute ai più, hanno spesso garantito a rifugiati e perseguitati politici la possibilità di rimanere in contatto con la patria e gli affetti, progettando un futuro di riscatto e libertà.

La scrittura avvicina i lontani nello spazio (Ovidio, in esilio sul mar Nero, giustificherà l’invio di lettere agli amici a Roma dicendo che «desidero essere con voi in qualsiasi modo»), ma anche nel tempo: leggere una lettera ci cala nella personalità e nella psicologia di chi ha scritto, ne svela i veri pensieri più di altri generi letterari nei quali il diaframma della finzione crea una barriera tra vita e letteratura. Un’epistola certifica la distanza, ma la riduce e la colma già nel momento in cui si scrive: non è poi sempre così importante che una lettera arrivi a destinazione, perché basta averla scritta per avviare una corrispondenza spirituale e una conversazione ideale, come ha insegnato un paio di anni fa la commovente storia di un bambino scozzese di sette anni, che prima di Natale aveva inviato un biglietto di auguri al padre defunto infilandola nella buca delle lettere, “destinazione Paradiso”, e ha poi ricevuto la rassicurazione del direttore delle Poste che il messaggio era stato recapitato. Davvero quel bambino avrà creduto alla nobile bugia? O forse gli sarà bastato sapere che, come messaggio nella bottiglia affidato al caso, sopravvivrà in giro, da qualche parte nel mondo, una testimonianza di un legame eterno, quello tra padre e figlio, che nemmeno la morte può spezzare?

«Non posso scriverti di più», è la frase con cui si concludono convenzionalmente tante epistole. A una lettera non servono troppe parole: a chi la riceve, santo o comune mortale, bastano poche righe per sentire vicino chi è lontano, e presente chi è assente.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *