UCCIDERE UN FIGLIO, CHE AMORE E’?

di MICAELA UCCHIELLI (psicologa e psicoterapeuta) – Ci sono notizie di cronaca insopportabili. Incomprensibili e insopportabili insieme. Quando un padre uccide suo figlio di 11 anni, per togliersi poi a sua volta la vita, non si può fare a meno di chiedersi come sia possibile. Se siamo religiosi ci domandiamo perché la mano di Dio non sia intervenuta, attraverso l’angelo, a fermare quella del padre come fece con Abramo. Per tutti gli altri resta lo sgomento di un atto violento e fuori da ogni senso, sgomento raddoppiato dall’accostamento delle parole amore e morte.

Lo hanno spiegato, ci hanno provato, come un atto d’amore. L’estremo atto d’amore disperato di un padre.

Ma siamo lucidi, per favore. L’amore, quando non è disperato e folle, non uccide, l’amore cura le ferite e le vite, vite che protegge e rispetta.

Stavano sempre insieme… L’amore, sempre quando non è disperato e dunque folle, mantiene le distanze dei corpi, ama l’alterità dell’altro, che riconosce come irriducibile ad ogni tentativo di rispecchiamento e fusione reciproca.

Il per sempre insieme è l’illusione di ogni amore ma, quando l’amore non è disperato e dunque folle, è un fatto di parole, di sogni, di poesia. Non passa nella realtà. Al limite resta nei confini della tragedia shaekespiriana.

L’amore, diciamolo fino a farcelo entrare bene in testa, quando non è malato e folle, rende l’aria più respirabile, non soffoca, illumina il mondo, non ne spegne per sempre la luce, non punta una pistola al proprio figlio per portarlo con sé in un viaggio in cui nessuno potrà più dividerli.

Non si tratta di amore, questo, ma della sua deriva patologica che arriva a considerare il figlio o la donna non alterità, ma proprietà. E allora, piuttosto che stare senza l’oggetto del folle amore, meglio uscire insieme dalla scena insensata del mondo. Nessuno ci potrà dividere.

Ho letto che la depressione di questo padre non può essere un alibi. Che si tratta di un assassino e basta. Cosa cambia? Si è tolto la vita, dunque, in ogni caso, non avrà sconti di pena per infermità mentale. Cosa cambia tra depresso e spietato omicida? Credete che la depressione psicotica, la melanconia, ammesso che la diagnosi sia corretta, rappresenti una condanna migliore? No. È come un ergastolo. Non se ne esce. Il senza senso della propria esistenza è radicale. È un mal di vivere in cui il soggetto è ridotto a un oggetto che non ha alcun valore, né ragione di stare al mondo. La fine è allora un sollievo da un’esistenza senza sapori, né colori.

C’è un lutto impossibile da compiere nella depressione, impossibile da accettare. Il soggetto vi si avvita, come Claudio si è avvitato al proprio figlio Andrea, che non poteva perdere. Una fine radicale eternizza una separazione impossibile.

L’unico modo per avere un posto nel mondo, per Claudio, sta nel ricordo eterno che domanda agli amici. Ricordatevi di noi. Uscire dalla scena sembrerebbe allora un modo paradossale per entrarvi. Nella sua fine, la vita acquista finalmente un senso. Quel senso che per noi resta, tuttavia, incomprensibile e insopportabile. Come la follia.

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