UCCIDERCI PER IL LAVORO NELLA SOCIETA’ DEL BENESSERE

di LUCA SERAFINI – Adil aveva 37 anni. Si batteva per il proprio lavoro e per quello degli altri: era diventato sindacalista per necessità, ma anche per idealismo e con grande convinzione, avendo uno spiccato senso di giustizia, come lo descrivono adesso colleghi e amici. Per questo a Biandrate (Novara) capeggiava la protesta organizzata sul piazzale antistante l’azienda, cappellino in testa e bandiera dei SiCobas attorno al collo.

Alessio invece di anni ne ha 25, fa il camionista. Era bloccato dai manifestanti, doveva fare il suo ritiro o la sua consegna da qualche parte: a un certo punto ha acceso il motore ed è partito e con il suo mezzo pesante ha travolto e ucciso Adil.

Un facchino contro un camionista, recita la cronaca surreale di un fratricidio, quello tra due uomini che al loro posto di lavoro sono aggrappati per la vita e fino alla morte. Due dure esistenze, sudate, affaticate, una stroncata e l’altra gettata via per sempre.

Scrive Dario Di Vico sul “Corriere della sera” che “qualcosa di tragico potesse accadere da un giorno all’altro lo sapevano in tanti. Queste dure contrapposizioni si susseguono da tempo (…)” in un clima di tensione crescente. Angosce tra poveri cristi che si fronteggiano sull’asfalto, nel far west di filiere dove stipendi miserabili, straordinari sottopagati o non pagati affatto, licenziamenti, chiusure, condizioni di lavoro, sono insopportabili”.

Martedì scorso ero a Crotone. Dovevo rientrare su Milano e il volo era da Lamezia Terme, dove mi stavano accompagnando per tempo. L’ultimo rondò, unica via di accesso per l’aeroporto, era circondato da Carabinieri e agenti in assetto antisommossa: presidiavano una manifestazione di protesta. Chi doveva partire era costretto a scendere da auto e taxi avviandosi allo scalo a piedi, 2/3 km sotto al sole. Ho preso il mio aereo, in qualche modo, rimuginando  sul perché i lavoratori che protestano e rivendicano i loro diritti si prendano improperi e antipatie della gente. Di altri lavoratori.

Non potevo immaginare la tragedia di Biandrate, soltanto poche ore dopo. Mi ha sommerso un devastante senso di colpa pensando alla mia rabbia incomparabile rispetto a quella di quel camionista di 25 anni. Inferocito, avevo aggirato il blocco dei manifestanti rassegnato a perdere l’aereo che ho poi preso comunque. Mi sono domandato perché quei contestatori non andassero sotto le sedi dei politici o delle loro aziende, invece di intralciare le vicende altrui.

Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Spesso scioperanti o dimostranti hanno bloccato strade, autostrade, binari, vie, piste… Pensano che sia l’unico modo per far conoscere i loro problemi e il motivo delle loro rimostranze, perché chiunque sporgesse la testa fuori dal finestrino, chiederebbe al poliziotto: “Chi sono questi? Cosa vogliono?”. E capita spesso di condividere la loro causa, finché non siamo noi a dover passare a Biandrate o a Lamezia Terme. Finché non siamo noi ad essere bloccati.

Ora che Alessio ha perso la testa diventando un assassino, sono sospeso tra il mio egoismo e quell’indifferenza così lontana dalle angustie dei facchini e dei camionisti…

Io che – naturalmente – non avrei mai schiacciato nessun acceleratore, non avrei mai bloccato nessun altro per gridare dei miei diritti, ho una sola domanda da farmi e cioè se da facchino o da camionista, in ogni caso esausto ed esasperato, arriverei all’estremo di violare il tempo e la libertà altrui, o all’assurdo di farmi largo schiacciando sull’acceleratore.

Ho mille risposte e nessuna, perché l’unica ragionevole e insopportabile verità sta nelle modeste esistenze (ora interrotte) di Adil e Alessio, vittima e carnefice per la stessa causa: sostenere il diritto. Vittime e carnefice per la stessa paura: perdere il lavoro. E noi non possiamo capirlo. Non possiamo capirlo perché nemmeno riusciamo ad accettare che qualcuno non ci faccia partire e che qualcun altro lo uccida per questo.

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