TUTTO SU COLAO, IL MESSIA

di GIORGIO GANDOLA – «Questa faccenda ha due difetti: c’è una task force in più da ascoltare e mancano le donne».

Nel corridoio dei Passi perduti in Parlamento le mascherine trattengono i microbi ma lasciano passare spifferi di classica accidia italiana. Quello delle donne è un problema e la prima lettera planata sulla scrivania del grande capo è di rimprovero: numerose associazioni di signore della salvifica e micidiale «società civile» hanno fatto notare che su 17 componenti del commando della Fase 2 solo quattro sono donne. Vergogna, appello immediato con l’hashtag #datecivoce, 50.000 adesioni. Il virus con l’elmetto a punta fa meno paura.

Dottor Vittorio Colao, bentornato in Italia.

Dopo 12 anni trascorsi nella city di Londra fra maggiordomi, segretarie in tailleur Chanel e stock options, il top manager ha accettato di trasformarsi in Bruce Willis che salverà il Paese dall’Armageddon del contagio.

Bresciano con papà calabrese, 58 anni, sposato con tre figli, Colao ha attraversato il mondo della finanza e del pianeta digitale con il sussiego e la riservatezza di un Mario Draghi con le Tods. Nessun pettegolezzo, nessuna foto mentre pasticcia una velina in spiaggia, nessun sussulto in tribuna a un gol di Ronaldo o Dzeko, nessuna comparsata da Lilly Gruber, nessuna multa con la Ferrari a Portofino. La prima buona notizia è che Colao, così meravigliosamente noioso, non sembra italiano.

La seconda è che diede una parte importante della sua liquidazione milionaria da consigliere delegato del “Corriere della Sera” a due fratelli che stavano costruendo una scuola per disabili e ragazzi difficili a Como, poi diventata un’eccellenza nazionale. La terza è che chi lo conosce lo definisce d’acciaio «perché sa cosa significa fare fatica». Nel senso dello sport, in bicicletta ha timbrato passi Dolomitici come il Pordoi, il Sella e il Falzarego. Mitica nella memoria degli amici una sua risalita del lago di Garda in windsurf.

È probabile che non baderà alle quote rosa.

La quarta buona notizia è che, a differenza del 99 per cento della classe politica che lo ha nominato, lui è abituato a decidere. Non per niente è stato prima alpino e poi ufficiale dei carabinieri. La quinta è meno rassicurante: in un’intervista video spiega da eurolirico senza dubbi che «dobbiamo essere contenti di come questo meccanismo europeo gestisce le crisi dei Paesi membri». E fa l’esempio della Grecia.

Per il resto è il figlio manager che ogni mamma del quadrilatero della moda di Milano vorrebbe avere: bocconiano con specializzazione sulla «formazione della classe dirigente», master in Business administration ad Harvard, ingresso con la flanella giusta nella banca d’affari Morgan&Stanley di Londra. Da qui a McKinsey il passo risulta breve e il curriculum è pronto anche per far mettere in posizione leone da scendiletto qualche presidente del Consiglio. A 35 anni incrocia Carlo De Benedetti (formidabile nave scuola di una generazione), diventa direttore generale di Omnitel e poi entra in Vodafone con tutta l’azienda.

Agli antipodi dell’italiano geniale e pasticcione, viene adocchiato dai proprietari di Rcs (il famoso patto di sindacato gestito da Mediobanca) per la gestione del “Corriere della Sera”. Ci rimane due anni (2004-2006) soffrendo in silenzio; servirebbe una cura dimagrante, servirebbe una rivoluzione digitale, ma ogni riunione sindacale con Raffaele Fiengo e i suoi nipotini gli sembra un tuffo negli anni Settanta. Nei corridoi di via Solferino corre una leggenda (o forse no). Sarebbe stato uno dei suoi collaboratori ad accogliere Fernanda Pivano, per il taglio del compenso degli articoli, con la frase: «Signora, lei di cosa si occupa?». La traduttrice di Kerouac ed Hemingway rimase in pietoso silenzio.

Alla fine se ne va, accompagnato dall’epitaffio che Ferruccio De Bortoli scrive nel suo libro “Poteri forti (o quasi)”: «Il curioso destino del gruppo Rcs è stato quello di essere il terreno sul quale si misuravano rapporti di forza tra azionisti, alcuni dei quali del tutto disinteressati a libri e giornali, tanto da mandar via un manager valido come Vittorio Colao».

Ogni riferimento a John Elkann e Diego Della Valle è puramente voluto. Il manager bresciano torna in Vodafone dove lo riaccolgono a braccia aperte, e ci resta per 10 anni. Sulla tolda del colosso telefonico guida ogni trasformazione digitale, di banda, di marketing, con sviluppo sicurezza dati, acquisizioni e scalate.

Uomo di finanza e di processi più che di prodotto, è riconosciuto a livello internazionale e su questo sembra puntare il premier Giuseppe Conte per farsi aiutare a rimettere in moto l’Italia. Gli si chiede una visione e si rimane appesi alla domanda suprema: che visione può avere un campione del Ceo capitalism oltre il denaro e le alchimie per moltiplicarlo? In attesa d’una risposta, tutto è meglio dell’immobilismo e bisogna fidarsi.

È appena partito e già vede due scogli che nel privato non esistono. Primo: dovrà destreggiarsi nella foresta di commissioni sorte in questi mesi come para-deretano della politica. Comitato tecnico-scientifico, task force del ministero della Salute, dell’Istruzione, dell’Innovazione, delle fake news e supercommissario della Protezione civile (l’impalbabile Arcuri che continua a litigare con le mascherine). Poi dovrà gestire chi, come Renzi, sta già chiedendo a gran voce che diventi ministro della Ricostruzione. Per improvvisa infatuazione, o piuttosto per addossargli il fallimento.

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