TRANQUILLI, CAMPIONI: FINIRETE NEL DIMENTICATOIO

di LUCA SERAFINI – Crescono, si allenano, si sacrificano, gareggiano, vincono (e perdono) da soli. Al fianco hanno l’allenatore, qualche volta i compagni, e poi forse amici, parenti, genitori che non sempre capiscono, non sempre supportano, ma sovente sopportano e basta.

Gli atleti italiani degli sport ai quali la calciofilia ha affibbiato il rango di “minori” come un marchio a fuoco (persino nelle redazioni esiste ancora questa distinzione), sono lupi solitari, fantasmi invisibili tra un’Olimpiade e un Mondiale, un Europeo o un Gala, cui di norma assiste un manipolo di appassionati.

In questi giorni e in queste ore invece i carri azzurri sono tutti esauriti, ci sono solo posti in piedi e i quasi 40 medagliati stanno già sgomitando tra politici – i più numerosi -, giornalisti, esperti dell’ultima ora, sfaccendati apparitori. Niente di nuovo e niente di esclusivo, per carità: anche all’estero esistono i carri dei vincitori su cui salgono accaniti perdenti.

La differenza sostanziale è il deserto che il nostro Paese assicurerà ai nostri piccoli grandi eroi dello sport da lunedì 9 agosto sino a Parigi 2024, così come è sempre stato fino a 2 settimane fa quando “Tokyo 2020 rinviata a 2021” fu inaugurata.

Nessuna riforma scolastica, dalle elementari alle università comprese, aumenterà il numero delle palestre, inserirà l’attività sportiva come materia di cultura, premierà o riconoscerà i risultati di chi oltre alla mente curerà anche il corpo. Non ci è servito essere culla latina: mens sana in corpore sano per il nostro Stato è forse solo un’espressione dialettale, di cui perlopiù si ignora il significato.

Noi non siamo diventati oggi i primi al mondo a correre e saltare in alto: lo siamo sempre stati quando si trattava di correre e saltare in alto per partecipare a un bando internazionale per i Mondiali o gli Europei di calcio, per le Olimpiadi, invernali o estive non importa. Dove c’è profumo di appalti, costruzioni avveniristiche da usare e gettare, cattedrali sparse nel deserto della sottocultura politica e sportiva, gareggiamo senza rivali e anche qui spesso vinciamo. Lo stadio di Bari è il Duomo che ricorderà lo sperpero di Italia ‘90 per l’eternità, ma è soltanto uno degli esempi storici più eclatanti insieme con il Delle Alpi di Torino (sulle cui ceneri la Juve si è poi costruita il suo, pochi anni dopo).

Dopo la legge 65 del 1987 per la costruzione degli stadi, lo Stato italiano spese per infrastrutture l’84% in più del budget preventivato, per opere nel frattempo addirittura demolite o inutilizzate e abbandonate. Nel 2006 le Olimpiadi invernali di Torino costarono più di 1 miliardo in appalti per costruzioni inesistenti oppure inutilizzate, ma tuttora con costi di manutenzione elevatissimi: la pista per bob Cesana Pariol, costata 110 milioni dopo aver raddoppiato il preventivo, necessita di 15 milioni per il suo ripristino. Necessiterebbe, per meglio dire.

Soltanto 3 anni dopo, per i Mondiali di nuoto del 2009, a Roma nacque la famosa Città dello sport di Tor Vergata, rimasta in realtà un grezzo sobborgo del nulla perché dopo essersi inghiottita milioni di euro, non videro mai la luce un Palasport da 8000 posti, una piscina olimpionica con 3000 posti in tribuna, un edificio dedicato alla pallanuoto con 4000 posti sugli spalti. Oltre, naturalmente, a una pista di atletica forse mai nemmeno disegnata da imprenditori, architetti e geometri che si erano spartiti la fetta dell’appalto.

Italia ‘90 costò di nuovo l’85% in più (evidentemente un surplus gradito dal nostro Stato) rispetto ai preventivi e in questo caso gli sprechi riguardarono decine di opere pubbliche collegate: i maxi parcheggi di Palermo, l’hotel milanese di Ponte Lambro mai terminato, fino al vero capolavoro della stazione ferroviaria romana di Farneto: costata 15 miliardi di euro, fu utilizzata 4 (quattro!) giorni ed ora è occupata da Casa Pound…

Il presidente del CONI, Malagò, è una brava persona che gli atleti e lo sport segue davvero, anche negli anni feriali, lontani dalle feste dei 5 cerchi, ma quando si sguazza nella politica e nella propaganda è difficile fare distinguo, nonostante lui uno in fondo se lo meriti.

Del resto, la propaganda intorno allo sport nazionale è una recrudescenza di storia antica: il primo scudetto della Roma nel 1942 (nessuna faziosità, mio papà era romanista…) non fu una tardiva intuizione di Mussolini, così come non lo furono i 2 Mondiali degli azzurri nel ‘34 e nel ‘38. Ci aveva già pensato Ercole, secondo una delle molte leggende che accompagnano la creazione dei Giochi antichi: al più muscoloso tra gli eroi mitologici, l’idea di organizzarli sarebbe venuta per ingraziarsi gli dei. Nientemeno.

Dopo essersi sbranata tutto ciò che avrebbe potuto far crescere lo sport nazionale, oltre a quello delle tangenti, la nostra politica è diventata la dea della propaganda postuma: in nome e per conto degli atleti azzurri vittoriosi, è partita forsennata la girandola di promesse di infrastrutture, riforme, sovvenzioni. Resteranno invece terra bruciata, al solito, arsa come quelle migliaia di ettari spazzati via dai roghi in questa incredibile, gioiosa, inquietante estate italiana.

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