L’analogia, sia pur relativa, tra la condizione di Guareschi e la nostra la si coglie al meglio in alcuni passaggi del suo “Diario clandestino”, scritto su foglietti di risulta durante la prigionia, rielaborato e pubblicato nell’immediato dopoguerra. Il sottoscritto, perdonate la parentesi personale, si vanta di possederne una prima edizione, ereditata dal padre, lui pure ospite dei tedeschi dal ’43 al ’45 e “compagno di lager”, per qualche tempo, dello stesso Guareschi.
Ebbene, nel “Diario”, accanto a descrizioni piene di umorismo della dura vita del campo, si trova un lungo capitolo dedicato a un sogno. Il capitolo, anzi, si intitola proprio così: “Il sogno”. «A noi [prigionieri] – spiegava Guareschi – è concesso soltanto sognare. Sognare è la necessità più urgente perché la nostra vita è al di là del reticolato, e oltre il reticolato ci può portare soltanto il sogno».
E allora Giovannino sogna e quel che sogna, in qualche modo, ci aiuta a capire il nostro desiderio di svegliarci una buona volta nel bel mezzo della nostra vita, ovvero quella curiosa aspirazione a che il passato (ri)diventi il futuro prossimo. Innanzitutto, Guareschi sogna di ritrovare la sua città com’era prima della guerra: «Vedo, controluce, il profilo della mia città. Davanti a me – come per accogliermi con un colossale abbraccio di cemento – si spalanca a semicerchio l’enorme torta del monumento a Giuseppe Verdi». Piano piano Giovannino ritrova tutto, ma l’abbraccio di cemento è in realtà un abbraccio fatto di carne, di vita: ecco il caffè (“fra mezz’ora arriverà il garzone e tirerà su la saracinesca. Poi verranno il padrone, le bariste, la cassiera bionda e gli amici”) e la panchina sulla quale sedeva con la futura moglie: «Siediti – fa dire alla panchina -. Parlami di te; parlami di lei. Io vi parlerò di voi… ». Infine, l’arrivo a casa, vissuto come un’esplosione, un terremoto che scuote la famiglia e gioiosamente la chiama alle armi: «Un urlo acutissimo: È qui! Ed ecco qualcosa che assomiglia allo scoppio della Rivoluzione francese».
Guareschi ritrova la famiglia, la moglie, i figli, e con essi la voglia di fare progetti, giocare, uscire a passeggio, andare al ristorante, viaggiare, vivere. Mogli, mariti e figli, oggi, vivono fianco a fianco: le famiglie sembrano riunite, ma in realtà sono in stand-by. Sono famiglie in attesa di liberazione. Una liberazione che, come Guareschi, sognano esplosiva, festosa, trionfante.
Forse la rabbia da tanti manifestata all’annuncio di una “fase 2” così timida e prudente è dovuta, oltre alle legittime preoccupazioni per il lavoro, anche a questa speranza delusa. Ovvero che a maggio arrivasse una liberazione vera e propria, un ritrovare noi stessi tutto d’un colpo, come quando nel 1945 le truppe Alleate abbatterono i reticolati, come quando i giornali annunciarono la fine della guerra. Non sarà così, per noi: e sostenere questa attesa snervante è lo sforzo più impegnativo, eroico se volete, che ci è richiesto.
Guareschi, partendo per la guerra, si fece forza di un proposito: «Non muoio neanche se mi ammazzano». Ecco un’altra idea che potremmo prendere in prestito da lui.