di GIORGIO GANDOLA – Il nervosismo serpeggia negli attici radical del quadrilatero milanese. A Gstaad non c’è ancora la neve farinosa, ma si scia. Si va o non si va? Il filippino Dagoberto ha acceso via computer il riscaldamento domotico del cottage di Zermatt e ha portato su dalla cantina sei paia di scarponi; la tutina Gucci della Titti attende sulle grucce. Ma le voci sono incontrollate e l’incertezza regna.
Pare che i gendarmi alla frontiera svizzera abbiano l’ordine di aumentare i controlli sugli italiani, noti untori da baita, e tenere pronto il blocchetto delle multe perché la seconda casa non è un buon motivo per sconfinare. Pare anche che se il commercialista Brambilla fosse sorpreso a pronunciare a voce alta l’intercalare “vadaviaiciap”, pur distanziato in coda allo skilift verrebbe deportato seduta stante al confine. Senza contare che Huber in questi casi spara.
All’improvviso, la svolta. Mentre Italia, Francia e forse Germania (Angela Merkel parla la prossima settimana, ma preferisce il mare di Ischia) hanno deciso di tenere chiusi gli impianti almeno a dicembre per prudenza da focolaio, la Svizzera stacca allegramente i giornalieri e l’Austria si appresta a seguirla. Il paese delle montagne per eccellenza tira dritto e il motivo non dovrebbe sorprendere: “Non possiamo permetterci di far bucare la stagione ai nostri imprenditori della neve”. E gli italiani? Caldamente invitati a venire, per una volta a braccia aperte, senza tamponi e senza quarantene. Il Consiglio federale non ha voluto rinunciare al turismo, che rappresenta il 3% del pil. Un discorso calvinista che vale anche per l’assenza di restrizioni territoriali nonostante i 300.000 contagi e i 4000 morti su otto milioni di abitanti (tasso di positività al 15%); alcune zone non sono rosse ma paonazze, eppure sono aperte. Si scia anche a Verbier, dove in marzo si accese uno dei focolai alpini più devastanti.
Un mese e mezzo fa, quando sul tavolo c’era il lockdown light, l’Assemblea di Berna trasse questa conclusione: ”Poiché non potremmo permetterci di risarcire le perdite d’impresa se non creando una voragine nei conti pubblici, non chiudiamo niente. Qualcuno ha da ridire?”. In nome del re Franco neppure l’opposizione ha avuto da ridire. Così, continuando a muoversi come se niente stesse accadendo, svizzeri e frontalieri sono diventati fattori di rischio. In Lombardia gli effetti sono evidenti. Per capire perché le zone lombarde più colpite (esclusa Milano per oggettiva grandezza) sono Como, Varese e la Brianza basta guardare la cartina geografica.
A favore della scelta azzardata bisogna aggiungere che il tracciamento dei positivi al virus cinese funziona alla svizzera, che gli ospedali sono molto svizzeri, che l’organizzazione di supporto ai contagiati a casa è rigorosa e che – a differenza della Babele italiana – i virologi svizzeri preferiscono parlare solo se interrogati.
La riapertura di skilift e funivie è stata stigmatizzata anche dall’Oms. L’inviato David Navarro ha definito «grave la situazione elvetica e molto blande le misure adottate da Berna». Il problema non è solo il pragmatismo di Berna, ma la credibilità dell’Oms dopo nove mesi di contraddizioni e balletti politici.
Così gli italiani guardano oltre Chiasso e vorrebbero trasgredire, mentre la nostra economia della neve si arrende al collasso. La legnata è dolorosa ma alzare la voce sarebbe fuori luogo perché la risposta “con 800 morti al giorno vuoi anche andare in montagna?” mi pare definitiva. Se chiusura doveva essere, che almeno fosse di tutta Europa, come ha provato a dire il premier Conte. Ma anche qui abbiamo potuto toccare con la mano la granitica compattezza di Bruxelles e la famosa unione degli intenti fra popoli. Von de Leyen: “Fate come vi pare, non ci immischiamo”. Lì sono inflessibili solo sulla lunghezza dei cetrioli e sui nostri debiti. Fate spegnere il calorifero domotico e rimettete la tutina Gucci nell’armadio. Come direbbero i Vanzina, sarà un inverno del curling.