SUPERLEGA / 3: L’IDEA HA ALMENO SESSANT’ANNI

di LUCA SERAFINI – Nel 1962, soltanto 7 anni dopo la nascita della prima coppa europea di calcio per club (Coppa dei Campioni), il primo grande manager del calcio italiano Gipo Viani rilascia un’intervista che suscita scalpore. Il titolo: “Dobbiamo inventare il campionato europeo”.

Venti anni dopo il vulcanico presidente dell’Ascoli e imprenditore edile, Costantino Rozzi, sostiene che “un giorno Milan, Inter, Juventus e i grandi club europei si faranno un campionato loro”.

Nel 1988 l’idea viene rilanciata in (più di) una conversazione tra Berlusconi e l’allora presidente del Real Madrid, Mendoza.

Verso la fine degli anni Novanta un gruppo di pionieri della televisione privata italiana (Rodolfo Hecht, Andrea Locatelli, Marco Bogarelli e Paolo Taveggia), sotto l’egida di 12 grandi club europei, elaborano una formula di campionato europeo (SuperLega riservata a società con meriti sportivi acquisiti nell’arco degli ultimi anni) aperto a tutte le federazioni europee (le società minori convogliate nella ProCup) con un’equa ripartizione degli introiti, senza inficiare i campionati nazionali. Il Gandalf, così si chiamava il progetto, generò di fatto le attuali formule di Champions e Europa League. “Il nostro progetto non contemplava un ‘numero chiuso’ di partecipanti”, dice Andrea Locatelli, “ma un calendario assolutamente più snello e compatibile di quello attuale”.

Nel 2013 torna a parlarne Adriano Galliani, un anno prima che il suo ex giocatore Massimo Oddo presenti a Coverciano la tesi finale del supercorso incentrata sul “campionato Master europeo”, dettagliatissimo secondo una formula “aperta”, con un’analisi approfondita rispetto ai benefici e al rilancio dei campionati nazionali. “Nella mia idea mescolavo meritocrazia a dati di varia natura per la formulazione dei gironi”, spiega Oddo, “fatto salvo il concetto di apertura e di sopravvivenza dei campionati nazionali, sia pure con una riduzione delle squadre nei massimi campionati”.

Il filo conduttore di questa idea ricorrente, da 60 anni a questa parte, è sempre lo stesso: aumentare gli introiti. Cioè lo stesso identico obiettivo che contraddistingue l’operato di Fifa e soprattutto Uefa (perennemente in guerra tra loro) che si sono arrovellate partorendo formule cervellotiche di Mondiali, Europei, coppe, supercoppe e Mondiali per club, per nulla funzionali e discutibilmente meritocratiche, dilatando il calendario in maniera al limite della sostenibilità, soprattutto rispetto alla necessità di conciliare le attività tra club e Nazionali, trascurando aspetti e problemi tutt’altro che secondari.

Di fronte a quest’ultimo golpe del calcio elitario occorre analizzare in primis i motivi della scissione, della tempistica e dei modi adottati nella comunicazione, infine i possibili (complessi) scenari.

La risposta al primo punto è chiara: l’Uefa ha fallito. Tutto ciò in cui poteva fallire. Dal FairPlay finanziario che ha di fatto creato una forbice assoluta tra ricchi e poveri, sino alla formula delle coppe dove – per esempio – è destino ormai che la vincente dell’Europa League, contraddistinta da un calendario insopportabile, sia sempre più spesso e continuativamente una delle “precipitate” dalla Champions. Aggiungiamoci pure una gestione filosoficamente dispotica, arrogante e niente affatto aperta ad analisi – e soluzioni – come su argomenti attuali: le proprietà dei club da parte dei Fondi e il VAR, per citare i temi più caldi.

Non solo la pandemia, ma una gestione scellerata di molti club ne ha messi moltissimi – alcuni anche tra i top – in ginocchio. Da qui il rilancio del progetto qualche anno fa (con l’Uefa seduta al tavolo) denominato ECA, European Club Association, presieduta da Andrea Agnelli. Ora improvvisamente il golpe: modi e tempi determinati, ancora una volta, dalle difficoltà finanziarie derivanti dal lockdown e da gestioni di bilancio allegre, ma evidentemente anche dall’impossibilità di trovare un accordo tra scissionisti e Uefa. I transfughi hanno trovato un alleato invincibile: la più grande banca del mondo, JPMorgan Chase, pronta a mettere sul tavolo 3,5 miliardi di dollari da dividere tra i club padri fondatori della SuperLega. Si tratta di un prestito da restituire in 23 anni, i soldi vanno utilizzati in investimenti (stadi di proprietà), ristori e mutualità a favore del calcio femminile, giovanile e di base (434 milioni l’anno contro i 160 attualmente versati dall’Uefa). Introiti previsti in futuro da sponsorizzazioni, diritti televisivi e biglietti stadio: 4 miliardi l’anno.

Il problema ora è lo scenario e breve termine. Il muro contro muro è destinato a non portare risultati concreti, se non un’infinita serie di battaglie legali con il rischio che ci venga sottratto il vero bene comune: le partite. Da una parte l’Uefa non può escludere i club scissionisti (Juventus, Inter e Milan, oltre a Barcellona, Atletico e Real Madrid, Manchester United e City, Chelsea, Tottenham, Arsenal e Liverpool) dai rispettivi campionati e in estrema ratio nemmeno i loro giocatori dagli Europei – né può ragionevolmente farlo la Fifa rispetto ai Mondiali -, perché manifestazioni per Nazionali svuotate dei migliori giocatori dei migliori club del mondo perderebbero clamorosamente appeal e quindi introiti. Dall’altra parte i 12 fondatori, che stanno continuando in queste ore a lavorare per trovare altri 8 club aderenti, sono consapevoli dell’ostilità già sollevata da federazioni, leghe e club di tutta Europa. Pure dei governi.

Francamente non so se ci sia spazio e modo per ricomporre la questione in maniera ragionevole, dato che i 12 minacciano di partire con la nuova competizione già la prossima estate. Con il coltello tra i denti, ma almeno una seduta a un tavolo comune è necessaria.

Sappiamo tutti bene che nessuno ha a cuore l’interesse dei più deboli, come il presidente dell’Uefa, Ceferin, vuole dare da intendere adesso, né che il perbenismo sventolato da Karl Heinz Rummenigge sia alimentato da sani principi sportivi e non invece dallo stretto legame tra il suo Bayern, l’Adidas e l’Uefa. Dall’altra parte, è difficile fidarsi di Agnelli che dice di voler salvaguardare tutto e tutti. Una cosa appare inevitabile: la rivoluzione.

Poiché gli enti, le federazioni e le leghe hanno continuamente prorogato e disatteso qualsiasi indispensabile riforma per dare solidità e credibilità a un sistema che si sta sgretolando dalla testa ai piedi, oggi possiamo essere indignati dal progetto della SuperLega, oppure – i primi sondaggi non indicano un divario così netto – entusiasti, ma ancora una volta certamente non sorpresi.

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