Desiderio viene dal latino, de sidus, mancanza di stelle, desiderare significa allora sentire la mancanza delle stelle. Il de, privativo, ne nomina pertanto la prima condizione, la mancanza.
Per desiderare qualcosa o qualcuno occorre incontrarne l’assenza, occorre muoversi per ritrovare la luce delle stelle che orienta il nostro viaggio.
Entriamo così nella seconda condizione del desiderio, annodata a doppio filo alla prima. Il desiderio, nel suo movimento, include l’altro: è sempre desiderio dell’altro diceva il primo Lacan, desiderio di essere desiderato.
Terzo elemento: il desiderio è inconscio, non ne sappiamo nulla cioè, eppure ci guida quotidianamente come se fossimo burattini nelle mani di uno sconosciuto burattinaio che ci spinge da dietro, senza tuttavia poterci voltare e vederlo.
Il desiderio è in parte slancio, apertura all’incontro, al legame, potenza generativa che ci anima, ci appassiona, ci tormenta, ci squarcia, ci scompagina la vita.
Fin qui tutto molto romantico. Ma il desiderio è anche, sempre, desiderio d’altro, d’altra cosa.
La soddisfazione del desiderio coincide infatti con la sua morte: ecco allora la necessità di rilanciarlo, di volgere lo sguardo verso un altro oggetto, un altro partner, un altro progetto, ancora un altro.
Lo sa bene l’isterica che vive per il desiderio. Quel che sa è che niente lo mantiene più vivo della sua insoddisfazione. Lo sa altrettanto bene l’ossessivo che ne teme la vitalità destabilizzante, che scombussola l’agenda dei suoi appuntamenti, che si insinua nella rassicurante contabilità in cui incasella la sua vita.
Desiderio insoddisfatto per la prima, desiderio impossibile per il secondo: accomunati da un cauto tenersi a distanza.
Per mantenere vivo il desiderio serve il modo isterico, del farsi assente per farsi desiderare, slittamento perenne, rincorsa infinita, il cui slogan potrebbe essere: non è mai quello.
Per mortificare il desiderio serve il modo ossessivo, cioè renderlo innocuo, distruggerlo, nella costruzione di un ostacolo sempre nuovo che si frapponga fra il desiderio e la sua soddisfazione.
Perché tutta questa fatica?
Perché il desiderio include una dimensione di angoscia; essere l’oggetto del desiderio dell’altro non è solo vertigine ma anche abisso. È essere ridotti a corpo. È domandarsi: che vuole da me?
E allora il desiderio non è solo in rapporto con la mancanza dell’altro, ma col niente.
È desiderio non solo di essere desiderati ma di desiderare, desiderio della scintilla, non del calore del fuoco, dell’inizio, non della durata. Della tempesta, non della quiete.
La strada del desiderio è un sentiero lastricato, a tratti scosceso e dissestato. Esso è spesso scomodo e rischioso, e la sua assunzione un atto di coraggio.
E’ inoltre anche, sempre, il desiderio degli altri su di noi. È ciò che mio padre, mia madre, mia moglie, mio marito, il mio maestro hanno immaginato per me. E quasi mai coincidono: il soggetto rinuncia allora al suo.
È come se il desiderio dell’altro fosse quel che vedo di me in una fotografia.
Per non restare patologico, il desiderio ha bisogno di realizzarsi in una decisione, un passo, una separazione, un fregarsene un po’ dell’altro. Quando si tradisce la propria vocazione, quando la si sacrifica sull’altare del desiderio degli altri, infatti, ci si ammala nevroticamente.
Forse questa Fase due, come anche quella che l’ha preceduta e quelle che seguiranno, sono in fondo complici della dimensione nevrotica del desiderio che punta a non incontrarlo mai. Quale sarà allora la fase del desiderio se oggi siamo, un po’ tutti, assenti giustificati?
La passione più grande del nevrotico è infatti che l’altro lo giustifichi e così passa la vita ad accampare una serie di scuse per non volere quel che desidera.
In questo contraddittorio liberi tutti si può uscire ma coperti e lontani. Soprattutto prudenti.
C’è allora da immaginarsi che gli ossessivi resteranno chiusi nelle loro tane mentre le isteriche si terranno alla giusta distanza, guardabili ma intoccabili.
Per tutti gli altri c’è sempre quello che sembrerebbe essere diventato il nuovo hashtag: io esco ma vorrei tornare a casa.
Perché, in fondo, correre tutti quei rischi? Magari, per ritrovare le stelle…