SPERO CHE LE MIE FIGLIE NON DEBBANO PIU’ SCEGLIERE

di ELEONORA BALLISTA – Ho a lungo riflettuto su un pensiero da esprimere per l’8 marzo, ma non riesco a concretizzare un concetto che non sembri trito e ritrito.

Tranne forse questo: e cioè il fatto che, nella giornata dedicata alle donne, si dicano sempre le stesse cose.

Intendiamoci, sono tutte giuste e sacrosante, ma il vero problema è che ciò che oggi è fortemente declamato, e unanimemente condiviso, domani sarà di nuovo riposto in un cassetto, ripiegato come l’abito della festa che si tira fuori solo nelle grandi occasioni.

Anzi, in un’unica occasione, quella della giornata che è tutta un tripudio di profumate mimose.

Per filosofia personale di vita cerco sempre di vedere il buono in ogni ambito, ma questo enorme tema che riguarda la sfera femminile, con tutte le sue implicazioni, dal lavoro perennemente sottopagato rispetto all’impegno di “lui”, alle opportunità mancate, fino alla tragicità della violenza che registra un numero di vittime sempre difficile da immaginare, e ancor più da credere, lascia poco spazio alla visione “in rosa”.

Che se ne parli (sperando che lo si faccia sempre di più) è certamente un segnale positivo, ma servirebbero anche risultati tangibili, che dessero davvero la sensazione che qualcosa sta cambiando.

Ogni volta che muore una donna per mano di un uomo non mancano le ricadute in termini di cronaca sui media e conseguente dibattito. Fino alla vittima successiva.

E questo clichè, purtroppo, non sembra modificarsi. Per la cronaca, appunto, negli ultimi 10 anni sono state ammazzate 984 donne (dato riportato dal “Corriere della Sera”) e la cosa, se possibile, ancora più tragica di questo triste elenco è che, fra i tanti nomi e cognomi pubblicati, c’è anche qualche “Ignota”. Anche lei era una donna, di cui però non sappiamo niente. Niente del suo dramma, niente di quanti anni aveva, niente di come è stata uccisa; non sappiamo nemmeno come si chiamava.

Il mondo giornalistico, il mio mondo, e mi fa piacere qui riferirlo per chi non lo sapesse, si impegna perché il racconto di queste tristissime parabole umane sia eseguito a regola d’arte, perché ci sia il rispetto massimo delle vittime. Esiste più di un’associazione di giornaliste che promuove corsi di aggiornamento per imparare a raccontare nella maniera più efficace le storie delle donne divenute vittime, sottolineando che anche le parole possono ferire, persino oltre la morte fisica.

Ma è una goccia nel mare. Non mi basta più. A nessuna giornalista, nessuna donna, dovrebbe bastare più, l’imparare a raccontare il femminicidio nel migliore dei modi. Vorrei non scrivere più di nessun femminicidio. O almeno vorrei riferire di una drastica riduzione di queste assurde morti.

Ma ancora non ci siamo.

Il tema è enorme, e io sono un soldato semplice. Ma mi piacerebbe poter dare una speranza alle mie figlie, che sono ancora giovani e sono femmine.

A loro mi piacerebbe lasciare uno sguardo al futuro che contempli la possibilità di realizzarsi sul lavoro e, contemporaneamente, di provare le gioie della maternità (se questo sarà il loro desiderio, ben inteso). Non vorrei cioè che fossero costrette a scegliere fra famiglia e carriera.

No, diciamo meglio, vorrei che proprio non fossero costrette a scegliere, fra niente.

Vorrei che potessero pensare la loro vita in tranquillità, con tutte le possibilità che il mondo del lavoro, e anche personale, riserva. Vorrei.

Ma per riuscire nell’impresa è necessario che tale ambizioso obiettivo non sia interiorizzato dalle sole donne: devono esserne convinti anche gli uomini. E questo resta un problema. Il Problema.

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