di PAOLO CARUSO (agronomo) – Siamo stati facili profeti: la pandemia da Covid-19 ha palesato ed acuito, come se ce ne fosse ulteriore bisogno, alcuni problemi atavici dell’agricoltura italiana. A fronte di un’annata agraria che per molte specie, dal punto di vista della resa e della qualità, si presenta soddisfacente, non si riesce a trovare la manodopera necessaria a raccogliere olive, uva, frutta, mandorle, pomodori…
La ripresa del numero dei contagi in alcune nazioni come la Romania, serbatoio di manodopera agricola del nostro Paese, e il flop della sanatoria dei migranti irregolari presenti in Italia voluta dal ministro Teresa Bellanova, sono stati gli ultimi due fattori, in ordine di tempo, a scatenare il caos nelle nostre campagne. E così le eccellenze agroalimentari del nostro paese rischiano seriamente di rimanere appese agli alberi o piantate nel terreno. A marcire.
L’allarme è stato lanciato da numerose associazioni di categoria che in varie regioni denunciano le difficoltà di molti imprenditori nel reperire manodopera per le raccolte stagionali. La baraonda che si sta scatenando nel settore agricolo è il risultato di politiche che, a voler essere generosi, possiamo definire poco avvedute, che hanno privilegiato la ricerca del consenso alle effettive necessità degli agricoltori, e che considerano l’agricoltura un settore di interesse marginale per la nostra economia. Il Covid 19 non ha fatto altro che accelerare e palesare un processo che era avvertito dagli addetti ai lavori, ma che non trovava e non trova sponde istituzionali e politiche.
Nei primi periodi della pandemia si stava arrivando a ipotizzare perfino un “ritorno all’agricoltura”, tanto che il “Corriere della Sera” dell’11 maggio riportava che 20.000 italiani si erano registrati sulle banche dati delle principali organizzazioni agricole, le quali – per fronteggiare la carenza di manodopera – avevano creato piattaforme su cui incrociare l’offerta di lavoro delle aziende e la domanda degli aspiranti operai agricoli. Ma dopo questa prima ondata, forse dettata dall’incertezza per il futuro e dall’emotività del momento, i nodi sono venuti al pettine; così ci sono stati soggetti che non si sono mai presentati al lavoro, altri che hanno desistito per le eccessive distanze da percorrere e c’è anche qualcuno che dopo mezza giornata di lavoro ha preso coscienza della durezza dello stesso e ne ha tratto le conseguenze. Andandosene. Il lavoro nei campi, purtroppo o per fortuna, non è per tutti.
Ma oltre alle situazioni a carattere locale o personale, è il sistema che complica la programmazione e la stabilità nella presenza di manodopera nelle aziende agricole. Molti imprenditori imputano la difficoltà di reperimento della manodopera alla concessione del reddito di cittadinanza, che scoraggia i più a lavorare in agricoltura: è evidente che la motivazione a lavorare nei campi è inesistente se l’alternativa è quella di percepire la stessa remunerazione standosene comodamente a casa.
Un’altra criticità è dovuta all’impossibilità di remunerare gli operai agricoli secondo quanto previsto dalle leggi. Il tema è particolarmente delicato: se infatti da un lato è necessario tutelare i diritti dei lavoratori da un punto di vista economico ed etico, dall’altro lato occorre prendere coscienza che per una remunerazione dignitosa del lavoro occorre che i prodotti vengano venduti a prezzi adeguati.
Purtroppo questo è il vero nodo della situazione: importazioni selvagge, globalizzazione, aste al doppio ribasso della Grande Distribuzione e altro ancora, rendono impossibile la formazione di prezzi di vendita adeguati e di conseguenza rendono poco concorrenziali i nostri prodotti sul mercato, scatenando una guerra tra poveri.
Come se non bastasse, anche le istituzioni fanno la loro parte (nefasta); un paio di giorni fa, Agea – Ente statale per le erogazioni in agricoltura – ha aggiudicato una fornitura di olio extravergine di oliva per il condimento nelle mense degli indigenti, a un prezzo del prodotto imbottigliato di 2,31 euro al chilogrammo, ovvero di 2,28 euro al litro. Chiunque capisce che questi prezzi non giustificano neanche il prezzo di acquisto di bottiglie ed etichette, figuriamoci del liquido contenuto. Ci rifiutiamo di chiamarlo olio, e tantomeno di oliva, perché risulterebbe offensivo rispetto ai tanti agricoltori e trasformatori che nel corso dei secoli hanno fatto di questo prodotto una delle eccellenze dell’agroalimentare italiano.
E cosa dovremmo pensare di un gruppo leader della Grande Distribuzione Organizzata del nostro Paese, quello della “spesa intelligente”, che ha pensato bene di fare un’azione di marketing sulla clientela permettendo di pagare le angurie a 0,01 €/kg, come a dare l’impressione che i prodotti agricoli non abbiano alcun valore?
Anche per questi motivi, gli agricoltori da parecchio tempo non riescono a far quadrare i conti, con costi di produzione che superano i ricavi, una situazione che inevitabilmente li porterà davanti a un bivio: continuare a massacrarsi di lavoro per pareggiare il bilancio o vendere le aziende. La situazione appare senza sbocco, facciamo fatica a immaginare soluzioni che rapidamente migliorino lo stato dell’arte, ma non trovarle equivarrebbe a una resa incondizionata per la nostra sovranità alimentare.
Certo se le istituzioni cominciassero quantomeno a limare le storture che li vedono protagonisti e a considerare l’agricoltura un settore di primario interesse per l’economia di questo Paese, difendendo prodotti nostrani, lavoratori e imprenditori, tutto il settore ne avrebbe beneficio e magari qualcuno ricomincerebbe a considerare la possibilità di avere un futuro da imprenditore agricolo.