di ELEONORA BALLISTA – “The Crown”, “SanPa”, “Bridgerton”, “The Undoing”. Soltanto quattro titoli, i più noti, certamente familiari a molti. Ma per dovere di chiarezza ricordiamo che si tratta di serie tv, le ultime uscite, disponibili su due delle piattaforme digitali a pagamento più gettonate, Netflix e Sky.
E perché le conosciamo, almeno di nome?
Perché il battage pubblicitario sui quotidiani, sui periodici, e financo sulla Rai, non lascia scampo: ce le ritroviamo dappertutto.
Se ne discute, fanno tendenza, sono argomento in voga, sulla bocca di tutti.
E allora mi chiedo: ma chi non dispone di tali piattaforme a pagamento, e nemmeno intende fare l’abbonamento perché ritiene che la tv generalista, per la quale si paga il canone, basti e avanzi, come può accogliere la marea di informazioni su queste serie tv, che tutti i media, e pure i social, quotidianamente, riversano sull’intero pubblico?
Non può.
O meglio, può ma in maniera estremamente limitata.
Prevengo la legittima obiezione: ci sono problemi più gravi del conoscere a fondo la trama di “The Crown”, peraltro ampiamente nota, trattandosi della storia vera della famiglia reale inglese; o ancor più di “Bridgerton”, commediola in costume, ambientata nel 1800, dalla narrazione talmente semplice da poter essere vista, anche distrattamente, cogliendo perfettamente tutta la storia. Forse solo “SanPa”, il racconto della comunità di San Patrignano, argomento da sempre divisivo, praticamente sconosciuto ai giovani della generazione Z, quelli nati dal 1996 in poi, merita un’attenzione in più.
Ci sono problemi più gravi dicevamo, è vero, ma questo non ci impedisce di fare almeno due considerazioni.
La prima: grandi utilizzatori delle piattaforme a pagamento sono gli adolescenti.
E non perché la tv generalista non abbia un’offerta sufficientemente ampia (su RaiPlay, Mediaste Play o La7 streaming si può rivedere praticamente tutto), ma solo perché quella pur enorme mole di programmi non è “di tendenza”.
La fruizione adolescenziale della tv, già intensa in tempi normali ma esasperata dalla costrizione casalinga causa virus, prevede regole ben precise, per cui la nuova serie tv va attesa, va esaminata, va guardata (spesso tutta d’un fiato perché le puntate sono tutte disponibili) e poi va commentata sui social, i loro social: Instagram, TikTok e via elencando (solo di nome perché per i genitori, quasi tutti, si tratta di terreno inesplorato).
E sia chiaro: se il genitore nega l’abbonamento compie una “drammatica” privazione.
La seconda considerazione: da genitore quale sono ho concesso tale abbonamento e, pur continuando a pensare che mi bastasse la Rai comprensiva di RaiPlay, mi sono ritrovata a guardare anche la proposta di Netflix, così da leggere, a ragion veduta, i commenti sulle più gettonate serie tv e sentirmi un po’ più allineata ai discorsi altrimenti incomprensibili delle mie figlie.
Per completezza va detto che tale meccanismo modaiolo non funziona solo per i programmi televisivi: stessa sorte per la musica. Su quel fronte il nome di riferimento è Spotify, dove si trova tutta la musica possibile e immaginabile.
Ma anche qui: che bisogno ci sarebbe di pagare in più per un’offerta discografica che le decine di radio disponibili offrono quotidianamente gratis?
Il vero discrimine, nonché punto forte, di tali piattaforme è la totale assenza di pubblicità. Privilegio che però, ovviamente, si paga in altro modo, con il canone mensile. E allora? A costo di essere banale, ho una mia proposta, non nuova, ma intramontabile: qualche serie tv in meno, qualche libro in più.