SMART WORKING, UMANESIMO AZIENDALE

di GHERARDO MAGRI – È di questi giorni la discussione sulla dichiarazione “lo smart working per i dipendenti pubblici è stata una vacanza retribuita ” di Pietro Ichini, giuslavorista ed ex parlamentare. Si fronteggiano, dalla rispettiva trincea, due fazioni dalle convinzioni molto nette.

La prima la chiamerei “occhio non vede, impiegato dole”. Sono i sostenitori del controllo fatto a trecentossessanta gradi. Soprattutto a vista. Se non vedono, non credono. Anzi, sospettano. Tutto ciò che sfugge alla loro vista acuta è troppo lasco e c’è qualcuno che sicuramente ne approfitta. La parola fiducia scatena eritemi. Nella loro mentalità ci sono corrispondenze perfette, solo bianco e nero, il grigio non esiste. Chi sta di più in ufficio produce di più, è tutto linearmente proporzionale. Odiano le pause caffè, le riunioni sono solo tempo perso, sono accumulatori seriali di ferie, la fedeltà fisica al posto di lavoro come moloch inamovibile. Decenni e decenni degli stessi cliché li hanno portati a considerare che qualsiasi forma organizzativa del lavoro diversa sia sbagliata. Il coronavirus li ha fatti vacillare. Sono gli ultimi a lasciare gli avamposti e i primi a rientrare. Hanno sofferto tantissimo stando a casa, producendo meno, secondo loro. Per loro è stata solo una parentesi da dimenticare in fretta. E’ un gruppo molto vasto, tanti non lo ammettono ma, appena trovato un sodale, si lanciano in amarcord struggenti dei bei tempi.

La seconda fazione sono quelli del “cuor non vede, impiegato non dole”. Si considerano progressisti e innovatori. A loro non interessa tanto il luogo dove si lavora, ma come si lavora. A casa, all’aperto, in movimento: non amano stare inchiodati alla sedia e alla scrivania. Credono di avere più ispirazione fuori dalle quattro mura aziendali e sono naturalmente portati all’indipendenza e all’organizzazione del proprio lavoro. Non si fanno problemi della reperibilità in quanto tale, piuttosto della qualità dei risultati prodotti. Si sono adattati al volo all’emergenze e sperano vivamente di non tornare più indietro. Sono stati produttivi e creativi, cercando di conquistarsi la fiducia dei superiori, parola che non disconoscono affatto. Sono generalmente più giovani e apprezzano sperimentare. Credono anche in un futuro green, perché spostarsi meno produce meno CO2. Condividono le loro esperienze e sono pronti al nuovo. Vanno guidati bene, però, perché si concentrino meglio sugli obiettivi e non si disperdano in mille rivoli.

A prescindere dal pubblico o privato, è un argomento che rivoluzionerà il modo di lavorare nelle aziende. Ciò che abbiamo di fronte farà crollare tanti tabù e farà tremare culture e atteggiamenti consolidati e anche vincenti, ma non per questo buone per il futuro. La dimensione del fenomeno è di portata ben più vasta di quello che crediamo e poco ha a che fare con il concetto del “dove”, su cui si focalizzano tutti. Sbagliato.

Sono in ballo concetti antichi come le montagne quali la responsabilizzazione, la fiducia, le competenze, la saggezza, il saper mettere in dubbio certezze che sembrano assolute. Valori da rimettere in gioco Questo è il vero cambiamento, questo è la linea da varcare con coraggio e se lo sapremo fare, lo smart working non sarà altro che una bella e intelligente applicazione del nuovo umanesimo aziendale.

 

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