SMART WORKING? SI’, MA PRIMA CAPI CON UN CUORE

di ALBERTO VITO (responsabile Psicologia Clinica ospedale dei Colli di Napoli) – Il tema dell’organizzazione del lavoro, del clima aziendale ed anche della valutazione dell’efficacia dello smart-working ha conquistato l’attualità. Tuttora il lavoro da casa è visto da molti con sospetto, nonostante diverse ricerche propongano conclusioni del tutto diverse e ne propugnino l’efficacia. Si tratta spesso di studi scientifici seri, condotti con campioni ampi, confrontando diversi modelli aziendali, che impongono alcune riflessioni con cui confrontarsi.

Già alcuni anni fa Ressler e Thompson pubblicarono, tradotta in Italia con un titolo eccessivamente semplificante, una ricerca durata sette anni che analizzava 3000 dipendenti. Essa concludeva enfatizzando la necessità che il datore di lavoro o il dirigente, nella valutazione dei dipendenti, dovesse valutare e sottolineare la loro produttività, piuttosto che limitarsi ad un giudizio basato esclusivamente su parametri burocratici. Secondo questo metodo il dipendente deve esser pagato per la quantità di lavoro che produce, non per la porzione di vita che regala. Questa semplice idea contribuisce a sviluppare un personale più stimolato, concentrato, disciplinato e, soprattutto, soddisfatto. In tal senso, si dimostra che l’orario flessibile, pause programmate durante l’orario di lavoro per svolgere mansioni personali o riposare e altre concessioni simili influenzano positivamente la produttività. In pratica, l’orario di lavoro deve senz’altro tener conto delle esigenze dell’istituzione, ma la produttività non diminuisce, anzi aumenta se si riesce a tener conto anche delle esigenze personali del lavoratore (che è anche un padre o una madre, un figlio, un marito o una moglie). Il grado di soddisfazione, insomma, correla positivamente con l’efficacia della prestazione.

Un’altra ricerca, condotta presso l’Università del Michigan e confermata da uno studio analogo della Harvard Business School, invece dimostra come riunioni di lavoro troppo lunghe, che servono principalmente ad affermare il potere di uno a discapito del gruppo, gestite in modo unilaterale, non orientate all’ascolto delle opinioni di tutti ma attente solo al ruolo di chi parla, non rivolte alla risoluzione dei problemi, sono non solo inutili ma finanche dannose in quanto mortificano la creatività e l’autonomia. Da queste ricerche emerge che le riunioni che sono veramente operative non dovrebbero superare le due ore. In Italia, invece, pare che ci sia il primato dell’assemblearismo aziendale. Il prof. Vaccani della Bocconi qualche anno fa affermò che la riunione è “un rito, un cerimoniale, un’operazione di facciata, che serve a ratificare decisioni già prese”.

E’ peraltro evidente come nei team ben funzionanti siano previsti momenti di condivisione collettiva, anche informali, che servono moltissimo a fare “squadra” ed a stemperare le tensioni. Al contrario, nei team dove la competenza comunicativa è minore, gli incontri di gruppo e le riunioni di equipe diventano più spesso occasioni unicamente di conflitto e quindi si diradano progressivamente. Viviamo nella cosiddetta “Era dell’Informazione”, della tecnologia che avvicina le persone, ma nella sostanza la natura del posto di lavoro, gli orari e la presenza obbligata dietro una scrivania non sono cambiati dall'”Era Industriale”, quando la catena di montaggio esigeva la presenza fisica dell’operaio. Non è necessario che lavoratori e aziende stravolgano la propria natura per attuare questa rivoluzione: basta cambiare modo di lavorare.

D’altro canto, gli indicatori più importanti del benessere organizzativo sono: condivisione degli obiettivi, motivazione, senso di appartenenza, soddisfazione lavorativa, sviluppo di relazioni di fiducia, equità/meritocrazia, possibilità di esternare le emozioni. La premessa è considerare la persona come valore, come risorsa di cui avere cura. Il leader deve dunque possedere capacità relazionali, tra cui è fondamentale la capacità d’ascolto. Tali capacità si possono in parte apprendere, anche se la predisposizione di partenza è essenziale, ma ciò che è più importante è altro: deve avere cuore.

Questi studi ci insegnano che il modello “baronale” non funziona. Essi ci suggeriscono come le strategie che puntano a “stressare” l’altro siano efficaci solo nel breve tempo, ma alla lunga sono deleterie e distruttive per tutti, sia leader che gruppo. Anche nelle aziende sanitarie, ad esempio, è opportuno che migliori l’organizzazione del lavoro. E’ evidente che la parola chiave sia motivazione.

Un bravo leader deve saper motivare il proprio gruppo. Deve aver pazienza perché i tempi di decisione di un gruppo sono senz’altro più lenti rispetto a quelli di un individuo singolo, ma è dimostrato che quando una decisione viene vissuta come condivisa e non subita è molto più facile che sia rispettata (questa semplice regola vale anche nelle relazioni di coppia, come insegnano anche gli accordi di separazione coniugale che talvolta sono disattesi dalle parti proprio perché esse non hanno partecipato alla loro definizione).

A nulla servono le competenze relazionali se non sono accompagnate da un sincero interesse verso i colleghi, visti in quanto persone, con pregi e difetti, limiti e risorse, desideri e paure, e non solo come semplici pedine di un proprio personale disegno o meri esecutori di un progetto altrui. Non si tratta più di “costringere” a lavorare gli altri, ma di facilitare la partecipazione di tutti al processo, creativo e gratificante, di svolgere un’attività utile individualmente e collettivamente. E’ evidente che viene richiesto un cambiamento culturale rivoluzionario: eppure il futuro prossimo va in questa direzione: lavoreremo sempre di più rimanendo a casa, ma saremo capaci di essere più produttivi?

Consentitemi di concludere con un piccolo aneddoto personale. Qualche tempo fa, per festeggiare il mio compleanno, i miei colleghi e tirocinanti mi regalarono un pallone da calcio, con lo stemma della mia squadra ed una dedica: “Siamo una grande squadra”, piena di firme. Ignoro tante cose, ma so che sono sinceramente interessato all’umanità di chi mi circonda, a volte un po’ sofferente, di cui mi sento parte, diverso ed uguale.

Dimenticavo: offro consulenze gratuite a capi che vogliono imparare a sorridere.

 

 

 

 

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