SIAMO TUTTI ZAM, IMPICCATO PER LE SUE IDEE

di MARIO SCHIANI – La vita di chi cerca di avvicinarsi alla verità spesso vale poco o nulla. Per rendersene conto basta leggere i particolari emersi di recente sulla fine del povero Giulio Regeni. Ma se l’eliminazione del “ficcanaso” in certi casi è faccenda da consumarsi nell’ombra, da nascondere tramite depistaggi e omertà, in altri diventa, o meglio vorrebbe diventare, un atto di giustizia e come tale da esibire, diffondere, addirittura produrre a esempio.

Si resta senza parole davanti alla notizia che un giornalista iraniano, Ruhollah Zam, “figura-chiave”, così scrivono le agenzie, dell’opposizione al governo della Repubblica islamica, è stato brutalmente impiccato.

Proprio così: impiccato. Certo, dall’Iran l’accaduto viene presentato in altri termini: “La condanna a morte del controrivoluzionario Zam è stata eseguita”. Una frase che condensa secoli, millenni, di buio, un costrutto dal quale sale insopportabile il puzzo dell’assolutismo. La “condanna” fa intendere che ci sia stato un processo, magari perfino equo, e che le “colpe” dell’imputato siano state riconosciute per imperdonabili; la definizione “controrivoluzionario” traduce in termini di ideologia novecentesca i concetti di “traditore”, “Giuda”, “nemico del popolo”. Infine, l’accenno all’“esecuzione” fa pensare a un gesto in guanti bianchi, un difficile ma doveroso atto di pulizia, che uno Stato autorevole ma giusto ha il diritto e perfino il dovere di compiere.

In realtà quello di Zam, come tutte le pene capitali per reati di opinione, è stato un omicidio, un tuffo nella barbarie. Zam, a quanto si legge, aveva partecipato alle manifestazioni di protesta contro il regime scoppiate tra il 2017 e il 2018. Le aveva anche sostenute attraverso un canale Telegram, “Amadnews”, seguito da 1 milione e 400mila persone. Proteste che erano trascese nella violenza, tanto che sul campo erano rimaste 25 vittime.

Zam aveva ammesso il suo sostegno alla causa dei manifestanti, negando però di averli incoraggiati all’uso della forza. Annusata l’aria ostile, si era rifugiato in Francia. La polizia iraniana è misteriosamente riuscita ad “arrestarlo” in Iraq nel 2019, trascinandolo il patria sotto il peso di accuse aggiuntive e, dal punto di vista del regime, infamanti: l’essersi fatto aiutare dai servizi segreti francesi e israeliani. Non un oppositore, dunque, ma un traditore per il quale la corda deve essere sempre pronta.

Amnesty International è intervenuta nei giorni scorsi per denunciare il crescente ricorso di Teheran alla pena di morte quale arma di repressione politica, invitando l’Ue a intervenire a sostegno di Zam: è mancato il tempo, il boia è stato più veloce. Un boia, si intenda, non al servizio di una banda di criminali fanatici nel deserto, ma di un governo che rivendica un posto alla pari nel consesso politico mondiale, che vorrebbe affacciarsi alla diplomazia con il rispetto che si deve ad autorità legittime e trasparenti. Lo ha ottenuto e lo otterrà ancora, il rispetto, non c’è dubbio, perché la politica applicata alla diplomazia non ha rivali nell’arte di chiudere un occhio e anche tutti e due al momento opportuno.

Nei giorni scorsi, a Hong Kong, è stato di nuovo incarcerato Jimmy Lai, un signore la cui colpa è quella di pubblicare un diffuso quotidiano che scrive cose sgradite al governo di Pechino. Non lo impiccheranno, perché l’ex colonia ha ancora troppa visibilità internazionale, ma il concetto è chiaro: quando sono scomode, le opinioni diventano reati; quando è impresentabile, la verità diventa tradimento.

Da tempo, ormai, sparare – metaforicamente e no – sul giornalista è diventato un passatempo e un luogo comune: lo fanno tanto i governi quanto i leoni da tastiera. In comune costoro hanno la caratteristica di non rispondere mai delle loro azioni: li protegge i primi la forza bruta e i secondi l’anonimato.

I giornalisti, con tutti i loro difetti, ancora pagano per i loro errori, ci mettono la faccia e nel caso del povero Zam anche il collo. Questo è meglio non scordarselo in un mondo che, distratto dal costante schiamazzo dei “quaquaraquà”, secondo l’etimo insegnatoci da Sciascia, è ormai indifferente perfino agli orrori più manifesti.

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