SGARBI PATETICI

di GIORGIO GANDOLA – A prima vista sembra un ferito portato via in barella dalla trincea sulla Marna. Poi, guardando meglio il video e soprattutto ascoltando i lazzi che lo accompagnano, si capisce che Vittorio Sgarbi sta benissimo, è solo entrato in modalità «bimbominkia». Quattro commessi della Camera lo reggono mentre lui, dentro quella sua resistenza passiva che sa di ossimoro, si fa cacciare dalla vicepresidente di turno, Mara Carfagna, destinataria di insulti pesantissimi. E come commenta Roberto Fico, titolare della cattedra a Montecitorio, «vergognosamente sessisti».
Sgarbi si stava esibendo nella sua invettiva preferita, quella contro la magistratura politicizzata. Prendendo spunto dall’imbarazzante caso Palamara, il critico d’arte (e qui lo sottolineo proprio per enfatizzare la delicatezza del ruolo a confronto con le sceneggiate da mangiafuoco alle quali ci ha abituato da 30 anni) si rivolge così al ministero della Giustizia, Bonafede: «Che un criminale delinqua è normale, che lo faccia un magistrato è un terremoto istituzionale. Dopo le inaudite dichiarazioni contro di lei da parte di un magistrato del Csm e dopo le inaudite dichiarazioni di Palamara contro l’onorevole Salvini, dobbiamo aprire una commissione d’inchiesta contro la criminalità di magistrati che fanno l’opposto del loro lavoro. Peggio dei criminali. Palamaropoli».
Parole pesantissime che scuotono l’Aula, ricevono applausi e critiche, ma fanno andare su tutte le furie Giusi Bartolozzi, magistrato, eletta con Forza Italia. «Sentire da un collega che la magistratura è mafiosa, a me fa inorridire», risponde.

Già eccitato di suo, Sgarbi alza il volume della radio e costringe la Carfagna prima a zittirlo, poi ad espellerlo. A questo punto lui sbrocca, comincia a dare delle prostitute a destra e a manca (con altri sinonimi: tr…), si rifiuta di uscire. E costringe i commessi a portarlo fuori in orizzontale come un vitello pronto per lo spiedo fra le pernacchie generali.

Riavutosi dal quarto d’ora di delirio, spiega su Twitter: «Non appartengo alla categoria dei pavidi, dei tornacontisti. Ci metto sempre la faccia. Chi mi attacca lo fa perché ricordo loro cosa sono e cosa sono stati, come hanno ottenuto quei posti e come verranno ricordati».
C’è tutto lo Sgarbi dell’ultima fase, un po’ declinante, molto arrabbiato, con sullo sfondo il viale del tramonto. C’è l’eccesso cronico di un uomo di grande intelligenza e di invidiabile eloquio che non conosce equilibrio, non frequenta moderazioni. Le sue emozioni sono più forti di lui, e infatti ogni venti minuti gli segnano un gol. Davanti a una telecamera, a un avversario politico, per fortuna non a un semaforo rosso perché sarebbe strage. È lo Sgarbi di sempre, frontale e impossibile da arginare, che 20 anni fa si prendeva a sberle con Aldo Busi e adesso usa il parlamento per fare avanspettacolo.
La stagione del virus, fra una cantonata sul contagio (non ci ha mai creduto, lo hanno zittito solo le bare) e un’altra sulle mascherine, per lui è stata fatale. Il problema è che è stata difficile per tutti e lo è ancora. Il problema è che il grado di tolleranza di fronte alle sceneggiate sgarbiane è arrivato vicino allo zero. Costa dirlo a chi, davanti a lui che parla di un quadro di Domenico Gnoli o di una scultura di Modigliani, ancora oggi si pietrifica con la mandibola a livello pavimento dall’ammirazione.
Costa dirlo ma va detto: Vittorio non ne possiamo più. Ormai il suo show dentro il teatrino della politica non è solo sguaiato e banale, è controproducente. Perché oggi giustamente non si parla che della sua cacciata, della sua villania, degli insulti sessisti in parlamento. E non si parla del tema terribile e decisivo per il nostro Paese che – pur con i suoi metodi da randellatore – stava sollevando.

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