di LUCA SERAFINI – La verità è che il mondo non si inginocchia mai, non stringe affatto il pugno, non pensa affatto che black lives matter: le vite nere non contano niente, questo pensano. In molti. La verità è che fingiamo di non accorgerci che tra le gambe del nostro sdegno, lo sdegno di pochi, strisciano le serpi incalpestabili del razzismo e che faccia parte di questo pianeta malato in ogni sfaccettatura della sua falsa quotidianità moralista, faccia parte del suo odio sempre infinitamente più facile dell’amore. La verità è che mentre in queste ore si susseguono a valanga le indignazioni dei politici, delle associazioni, dello sport e della cultura, della gente comune disgustata, i negri restano negri per la maggioranza silenziosa che ai negri continua a dirglielo in faccia: negri. Senza pudore. In tutti i modi subdoli che conoscono.
Era come un pupazzetto nero, coccolato da gente divertita che lo guardava curiosa e ci giocava, persino. Poi Seid Visin è diventato adulto, è diventato un negro. E come negro è stato trattato, come negro si è sentito vittima reietta, un usurpatore del lavoro e di diritti dei bianchi. Non laggiù nel Missouri, non sotto i manifesti di Ebbing, ma qui da noi, in Italia. Al sud, laggiù dove quelli del nord li chiamano terroni. Ma al nord, dove quelli del sud li chiamano polentoni, era stato lo stesso per Seid: il razzismo non ha regioni né confini. Lo ha scritto lui stesso, nel 2019, due anni prima di suicidarsi, adesso che ne aveva venti: “Ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”.
Non era immigrato, era stato adottato da una coppia di Nocera Inferiore (Salerno) e da bambino si è sentito amato, rispettato, perché italiano. Poi ha iniziato a camminare con le sue gambe, a giocare nel Milan e nel Benevento, e quindi senza il laccio familiare che ne sapevano che fosse un nostro connazionale… Era semplicemente un negro, un immigrato, un clandestino, probabilmente un furfantello: “Sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera”.
Lasciato il calcio per studiare, si manteneva in autonomia: “Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro”. Dopo questa esperienza “dentro di me è cambiato qualcosa: come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone che non mi conoscevano che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco”.
Disperato, ha provato la tattica del contrappasso fingendosi razzista a sua volta. Per difendersi: “Quando stavo con i miei amici facevo battute di pessimo gusto sui neri e sugli immigrati. Addirittura con un’aria troneggiante affermavo che ero razzista verso i neri, come a voler sottolineare che io non ero uno di quelli, che io non ero un immigrato. L’unica cosa di troneggiante però, l’unica cosa comprensibile nel mio modo di fare era la paura”. La paura. “La paura per l’odio che vedevo negli occhi della gente verso gli immigrati, la paura per il disprezzo che sentivo nella bocca della gente, persino dai miei parenti che invocavano costantemente con malinconia Mussolini e chiamavano ‘Capitano Salvini’. La delusione nel vedere alcuni amici (non so se posso più definirli tali) che quando mi vedono intonano all’unisono il coro Casa Pound”.
Sfinito, non ha rinunciato al pudore, all’orgoglio, sbattendoci in faccia che “con queste mie parole crude, amare, tristi, talvolta drammatiche non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente vita”.
No, Said. Lo scrisse Milan Kundera mezzo secolo fa: la vita è altrove.
Luca ha un pensiero e una penna delicata
È triste constatare che il rispetto verso l’altro non è patrimonio culturale della ns società. Già spesso non vi è rispetto in famiglia tra coniugi e verso i figli come possiamo sperare che lo di abbia verso il “diverso” di qualunque tipo sia? Riflettiamo e guardandoci allo specchio chiediamoci se siamo veramente”uomini”.