di JOHNNY RONCALLI – Capire da dove possa sgorgare l’insolenza gratuita è oggetto di analisi sociologiche. Prepotenze, sfide, insulti che saettano immotivati, senza innesco alcuno.
Cammino con una persona autistica su un marciapiedi a fianco del Centro dove lavoro. Stiamo rientrando da una passeggiata, una passeggiata che non sempre procede serena, qualche scossa la si avverte ogni tanto, ma sono scosse che ci si aspetta. Non sempre il mondo è accogliente, non sempre è facile comprenderlo e non sempre si è dell’umore giusto. Giusto, per farla breve. Se sei autistico poi, figuriamoci.
Comunque, quando la passeggiata volge al termine, quando si sta per tornare nel mondo noto, conosciuto e rassicurante, in genere – non sempre, macché – gli animi si placano e il peggio è alle spalle.
E invece succede quello che non ti aspetti. È proprio vero, capita che il veleno stia nella coda. Camminiamo, si diceva, a pochi passi dalla meta, e vediamo sopraggiungere un ragazzino in bicicletta, 16 anni ad occhio. Sulla bicicletta un clandestino, un passeggero abusivo alle sue spalle, ma non è questo il punto. Ci viene incontro, nessun accenno di decelerazione, ci scostiamo un po’, quel che è possibile e quel che ci sembra ragionevole. Ci oltrepassa e dopo pochi metri sentenzia, «spostati, non vedi che sto passando». La virgola è un mio dono, non c’era, ne sono sicuro. Rimango attonito, e così la collega con altri due autistici alle mie spalle. Ma ancora non sappiamo.
Mi fermo, faccio per girarmi e dico «scusa?». Il prode ciclista prosegue per qualche metro e poi rincara, «cosa vuoi, dai vieni, non ho paura». Ribadisco, «scusa?».
Prosegue qualche altro metro, io lo fisso a distanza, muto, e lui, prima di ripartire firma l’epilogo, «ritardato» mi etichetta. Ammetto, la minuscola fetta di mahatma che è in me vacilla, dentro di me un cratere in ebollizione, cristallizzato dallo sbigottimento e dal ruolo che ho in quel momento. Avesse apostrofato la persona autistica con la quale ero in quel momento, temo che la piccola fetta sarebbe crollata.
Non è la prima volta, accade anzi sempre più frequentemente, ma cosa diamine è successo? Presuntuosi, spacconi, prepotenti, in più di mezzo secolo di vita ne ho incontrati. Ma questa insolenza gratuita non la ricordo. Ricordo che serviva una provocazione, un piede calpestato, almeno, non che suoni come una giustificazione. Ma questo? Poco importa che sul camminamento sia impresso, bianco su nero, un omino che cammina, di bicicletta nemmeno l’ombra. Così, caso mai si volesse intavolare una discussione sul merito e sul diritto, ma qui figuriamoci…
Deve aver ragione il prode ciclista, sono ritardato, sono in ritardo sui tempi, qualcosa devo proprio essermelo perso. Si rischia di suonare come tromboni sfiatati, a dire che tutto ciò è lo specchio dei tempi, si rischia di interpretare il trito ruolo del fustigatore delle nuove generazioni. Eppure io vengo da un mondo nel quale il solo fatto di essere più piccolo, più giovane, imponeva un minimo di rispetto, se non deferenza. Non sempre era giusto, certo il più grande non aveva sempre ragione, ma era un codice che qualcosa insegnava.
Qualcosa avrebbe insegnato anche al ragazzino che sull’autobus ignora l’anziano signore che lo invita a indossare la mascherina che porta al polso come disonorevole orpello, lo ignora al punto di non degnarlo nemmeno di uno sguardo, di non considerarlo nemmeno degno di essere ascoltato. Altro episodio del quale sono stato testimone.
Il mio spregiudicato pedalatore è un’eccezione, ne sono sicuro, ma ho il sospetto che sia più contagioso di quanto si possa credere. Asintomatico non lo è certamente, quindi si applichi la procedura: tampone, isolamento, se necessaria terapia intensiva, molto intensiva.