SE SERVE UN TRIBUNALE PER QUANTIFICARE IL LAVORO IN CASA

di ELEONORA BALLISTA – Fa notizia una recente sentenza del Tribunale di Pechino secondo la quale, in caso di divorzio, il lavoro domestico che una donna svolge durante gli anni di convivenza matrimoniale va liquidato con adeguato assegno.

Tale provvedimento, scaturito in forza del Nuovo Codice civile della Repubblica popolare, ha il sapore della svolta epocale perché fino ad oggi, in Cina, le cause in tal senso prevedevano la divisione dei soli beni tangibili.

In cifre, nello specifico caso riportato dal “Corriere della Sera”, il riconoscimento è stato quantificato in 1400 euro l’anno. Una cifra ridicola, che ha scatenato le reazioni sui social fra chi plaude a un cambio di passo della giustizia cinese e chi ritiene la cifra assolutamente inadeguata, appunto.

Per dovere di informazione va segnalato che in proposito, in Italia, c’è una sentenza della Cassazione Civile, la numero 18287 del 2018, che, per la definizione dell’assegno divorzile, tiene conto, fra gli altri criteri, della durata del vincolo matrimoniale equiparando “il lavoro domestico, di cura e di accudimento dell’altro e della casa familiare, allo stato privo di concreto riconoscimento reddituale, al lavoro prestato all’esterno del nucleo familiare”.

Ma al di là di ciò che stabilisce la legge, mi viene un dubbio: siamo sicuri che quantificare in moneta sonante il lavoro delle casalinghe basti a risolvere la questione?

Certo, è chiaro che se una coppia si separa dopo vent’anni di matrimonio, durante i quali lei ha rinunciato alla sua professione per accudire marito, figli e casa, un giudice non può far altro che riconoscerle in termini monetari l’impegno suddetto.

Ma gli anni spesi nel lavoro quotidiano dentro casa, a scapito di una carriera che è rimasta solo un’ipotesi, sono un tempo che nessun assegno può risarcire.

E questa considerazione è vera anche in costanza di matrimonio, terrei a precisare.

L’onere di cura è, come acclarato da più di una ricerca sull’argomento, sempre in maggioranza sulle spalle delle donne, che si ritrovano spesso senza un lavoro retribuito, ma ugualmente impegnate da mattina a sera.

Sconfinando in casi che inesorabilmente continuano a popolare la cronaca nera, questa è anche la condizione di molte donne maltrattate da mariti o compagni e che, data l’impossibilità di mantenersi da sole per aver rinunciato alla propria occupazione per accudire la famiglia, restano giocoforza sotto lo stesso tetto del loro aguzzino, finendo troppo spesso per diventarne le vittime.

Io trovo che in coppia sia dovuto l’impegno di entrambi per il giusto ménage familiare. Ma ciò non deve tradursi in quell’idea, secondo me poco praticabile, di turni fissi per lavaggio piatti o preparazione di pranzi e cene.

Significa soltanto darsi una mano, ognuno come può e quando può.

Significa che se a lui è concesso il principale impegno professionale, a lei, seppur più dedita alla gestione di casa e figli, si deve comunque consentire di svolgere, almeno in parte, il proprio lavoro.

E se per permetterle questo impegno serve un aiuto esterno, potendo lo si pianifica.

E poi, non ultimo, c’è un aspetto cardine della questione: una donna può anche decidere di rinunciare al proprio lavoro, ma tale rinuncia non deve essere data per scontata, mai, da nessuno.

Anzi, chi le sta accanto deve cogliere il valore di tale rinuncia. Un valore, come già detto, non facilmente quantificabile in termini monetari, perché non si tratta soltanto di mancato guadagno, ma anche di mancata gratificazione personale.

Temo però che questo sia un punto di vista non ancora del tutto acquisito.

Mi viene in mente una frase di Barack Obama che, appena eletto presidente degli Stati Uniti, non mancò di ringraziare sua moglie Michelle per aver rinunciato ad una brillante carriera pur di sostenerlo nella corsa alla Casa Bianca.

Ecco, magari le case di tante donne sono più piccole di quella dell’allora first lady americana (e non sono nemmeno bianche), ma rimangono comunque un impegno notevole, che non può, non deve essere sminuito o ridimensionato. Senza bisogno che serva in giudice per riconoscerlo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *