SE PAPA’ E MAMMA SI SCIACQUANO LA COSCIENZA DENUNCIANDO CHI VENDE VIDEOGIOCHI

C’è l’ok del giudice: i genitori canadesi possono procedere con la richiesta di risarcimento collettivo (class action) contro l’azienda creatrice di “Fortnite” perché – secondo loro e i documenti che si accingono a presentare in tribunale – quel cruento videogioco ha creato nei loro figli una dipendenza ingestibile: non dormono più, non mangiano, non si lavano. Il paragone di mamme e papà con la cocaina e l’eroina è stato suffragato dal giudice Sylvain Lussier che, nel dare loro il via libera all’azione legale, ha spiegato che “gli effetti dannosi del tabacco non sono stati riconosciuti dal giorno alla notte”.

Si aprirà così l’ennesima tenzone sulle responsabilità di chi. L’incentivazione, il plagio, la superficiale disinvoltura della casa produttrice, in effetti? O lo scarso controllo, la scarsa autorità dei genitori medesimi?

Non essendo né psicologi né laureati in giurisprudenza, si può soltanto cercare di approfondire la tematica senza banalizzarla. Dunque, “Fortnite” è uno dei tanti videogiochi in cui gli esseri umani si massacrano tra loro per la sopravvivenza, in questo caso 100 combattenti catapultati – non si sa come – su un’isola sperduta. Devono eliminare gli altri per salvarsi, il che permettetemi non sembra davvero un’idea così originale, rivoluzionaria, nonostante coinvolga ormai milioni di giocatori reali nel mondo. Non è nemmeno diversa, in fondo, rispetto a tutte le dipendenze di adulti e minori nella storia. Siamo cresciuti fino a pochi decenni fa con i soldatini, le collezioni di eserciti di plastica, indiani e cowboy, facendo stragi quotidiane sulla moquette o sul parquet. Solo che a una certa ora la mamma veniva a interrompere le furiose battaglie, spazzando via le orde con le sue stesse mani, buttandole in un cesto di vimini straordinariamente politically correct, perché lì dentro convivevano pacificamente tedeschi e inglesi, francesi, italiani, spagnoli, sudisti e nordisti e, appunto, indiani con cowboy. Dormivano tutti insieme per tornare a sbranarsi il giorno dopo.

Personalmente vissi un altro tipo di dipendenza: quella del calcio. Trasformai prestissimo, intorno ai 7/8 anni, i soldatini in giocatori che disponevo su una tela per terra. Due matite fungevano da porte, il pallone era una pallina di carta o di pongo. Trascorrevo interi pomeriggi sdraiato a giocare partite di un campionato che mi ero inventato, fino all’arrivo della mamma e il suo triplice fischio.

Più tardi fui preso dalla fobia del calcio giocato e i pomeriggi interi iniziai a trascorrerli sul cemento della scuola o all’oratorio, fino a quando arrivavano il bidello o il sacerdote a sequestrare il pallone. Cominciavo a non dormire e non mangiare un paio di giorni prima delle partite, con le farfalle nello stomaco. Ci pensarono, di nuovo, genitori e insegnanti e regolamentare la mia vita, pardon dipendenza, dividendola tra libri e pallone che – secondo un mio professore di inglese alle scuole medie – mi stava prendendo il posto della testa.

Fu quel prof la spia che condizionò le regole ferree imposte da mio padre e mia madre: ti allenerai e giocherai se andrai bene a scuola. Ora risulta che l’azienda produttrice di “Fortnite” abbia dotato il videogioco di un parental control (come quello della paytv che protegge la visione di film hard o troppo violenti, tramite un codice segreto o una password) che permette ai genitori di ricevere i report di gioco, venendo a conoscenza del tempo trascorso dai pargoli ad eliminare i rivali sull’isola insanguinata e potendo impostare addirittura una sorta di autorizzazione. Che, per definizione, si può concedere o negare.

Faccio fatica a non comparare le presunte colpe di “Fortnite” sulla dipendenza dei minorenni, a quelle virtuali che i produttori di tabacco, alcolici, macchinette da gioco, scommesse indurrebbero agli adulti. O appunto quella delle droghe. I tribunali debordano di sentenze su questi temi ed è ormai acclarato come quei verdetti si dividano tra le obbligatorie avvertenze delle aziende, come se si trattasse di medicinali, e il controllo – appunto – dei genitori. Fisiologicamente obbligatorio. La droga pesante è invece fortunatamente combattuta ad ogni latitudine.

Anni fa sotto Natale chiesi a un mio caro amico di portare suo figlio in un negozio di videogiochi, affinché potesse scegliersi il regalo che preferiva. Il piccolo, aveva una decina d’anni, ne indicò uno che il commesso mi spiegò essere indicato “+18”, intesa come età preferibilmente consigliata, suggerendomene un altro (persino meno caro), ma il ragazzino insistette perché “ce l’hanno tutti i miei amici e compagni di scuola”. Arrivati a casa, suo padre si fece spiegare le modalità del videogame: una splendida donna killer reclutava i suoi sicari misurandone esplicitamente doti e prestazioni sessuali, dopo di che i fortunati vincitori andavano a massacrare le vittime nei modi più efferati. Papà chiese gentilmente a me e suo figlio di tornare al negozio e farci sostituire la scatola.

Senza essere psicologo né giudice, ero e resto convinto che le dipendenze le creino i disagi, la debolezza, le turbe. Senza essere psicologo né giudice, ero e resto convinto che le vendite legali vadano regolamentate, controllate, autorizzate e stia poi al fruitore scegliere, decidere. Non trovo sostanziali differenze tra i miei soldatini di plastica e “Fortnite”. Ne trovo invece qualcuna molto profonda tra i genitori canadesi e il mio amico: suo figlio, a quei giochi, non ha mai più giocato.

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