Intendiamoci: ci sono tante cose che gli italiani potrebbero imparare dagli stranieri. Per esempio a mettersi in fila spontaneamente quando c’è necessità, incominciando dalla fermata del bus, mezzo al quale tendiamo a dare l’assalto come neanche i guerrieri dell’Orda d’oro. Oppure, e forse soprattutto, ad aver rispetto della cosa pubblica: una panchina, il cestino dei rifiuti, il marciapiede, la spiaggia. Non è detto che una cosa “di tutti” debba essere trattata come fosse “di nessuno”. Al contrario, logica vorrebbe che, nell’uso, si prestasse particolare attenzione, così da rispettare il diritto altrui di goderne come ne godiamo noi. Non sempre questo accade, come chiunque si sia avventurato in un bagno pubblico sa bene.
Ciò detto, non sarà fuori luogo aggiungere che anche gli stranieri dovrebbero imparare qualcosa da noi. Per essere più precisi, dovrebbero imparare ad apprezzarci per quello che veramente siamo e non per quello che loro vorrebbero imporci di essere: una cartolina degli anni Cinquanta. L’idea che tanti stranieri hanno dell’Italia sembra presa di peso da “Vacanze romane” o, peggio, da polpettoni sentimental-turistici come “Under the Tuscan sun” o “Eat pray love”. In sintesi, siamo gente che passa le giornate a prendersela comoda, sorseggiando buon vino e sbocconcellando prelibatezze (quasi sempre alle latitudini sbagliate: cannoli alle Dolomiti e canederli a Lampedusa). Un – presunto – stile di vita molto ammirato e invidiato che tuttavia non esclude una quota di sospetto. Soprattutto nel mondo anglosassone, l’italiano ancora oggi soffre di una reputazione ambigua: solare e cordiale da una parte, inaffidabile e fondamentalmente disonesto dall’altra. Un pregiudizio di lunga data: lo rintracciamo almeno dai tempi del Grand Tour. Amatissime dai viaggiatori erano l’Italia e l’arte italiana, adorate le rovine dell’antica Roma e ammirati i capolavori del Rinascimento. Altra storia per gli italiani, come certi personaggi poco raccomandabili che animano i romanzi di Ann Radcliffe ancora oggi sono pronti a testimoniare.
Vero è anche che oggi, in tempi di commento libero in Rete, presso gli stranieri l’Italia gode tutto sommato di buona reputazione. Il paesaggio è “beautiful”, il cibo “amazing” e l’offerta turistica “exciting”. E così, quando qualcuno si permette di deviare da questa formula ci restiamo male. E’ accaduto quando la studentessa americana Stacia Datskovska ha raccontato del suo semestre di studio a Firenze in termini molto negativi. Colpa, in parte, dei suoi coinquilini, pure studenti stranieri, interessati più alla vita notturna che alla cupola del Brunelleschi, più a nutrirsi di schiacciate dell’Antico Vinaio che ad assorbire bellezza agli Uffizi. Ma colpa anche nostra, spesso “ostili, sconsiderati e irragionevoli”, pronti a deriderla per il suo aspetto, tanto che lei, per reazione, ha deciso di indossare abiti sportivi di marca americana, così da offendere deliberatamente il nostro senso estetico e sfidare lo snobismo nazionale.
Qui, potremmo anche azzardarci a dire che il giudizio di Stacia sembra afflitto da un senso di autoconsiderazione un tantino elevato accompagnato da un’autostima, al contrario, a livelli piuttosto scarsi, combinazione tanto più allarmante se si pensa che la giovane studia giornalismo e dovrebbe dunque sforzarsi di tendere a una certa obiettività. Purtroppo, non possiamo farle la morale per questo: in generale la reazione mediatica italiana è stata quella di indagare rapidamente nella comunità degli studenti americani a Firenze per scoprire, con soddisfazione troppo pronta per non essere dubbia, che sono interessati soltanto all’alcol (servito qui ai diciottenni mentre in America se ne resta esclusi fino ai 21 anni) e a tirar mattina tra loro. Mai cercato contatti con gli italiani, mai trovato il tempo di fare un salto in Duomo o a Santa Croce. L’esatto contrario, insomma, di quel che dovrebbe essere un periodo di studio all’estero: utile ad aprire la mente, conoscere persone insolite, declinare il mondo in una nuova lingua.
A sfruttare questa occasione, così a occhio, sembrano più bravi i nostri ragazzi. Forse sono più motivati: visto che il loro Paese offre loro molto poco, non possono sprecare alcuna chance all’estero. Questo anticipa un finale ambiguo, dolce e amaro insieme: molti giovani italiani conquisteranno il mondo approfittando dell’ubriachezza dei loro coetanei stranieri, gli altri resteranno qui, a servire gin & tonic e aspirine all’ombra del campanile di Giotto.