SE IL MANAGER VALE 36 VOLTE IL DIPENDENTE

di GHERARDO MAGRI – “Stipendi e Covid, un dipendente medio ci mette 36 anni per guadagnare quanto il capo” è il titolo roboante di un quotidiano nazionale a seguito dell’ultima ricerca Mediobanca sulle 27 aziende quotate al Ftse Mib del settore industriale e servizi nel 2020: tanto per capirci, i più grandi gruppi italiani.

La notizia fa sempre effetto per la matrice fortemente populista, e al tempo stesso tecnicamente ineccepibile, del rapporto sproporzionato tra i due livelli. Che sono, in valore assoluto, di poco oltre 2 milioni di euro lordi/anno per i top manager e di 57 mila euro lordi/anno per l’impiegato medio.

Intanto, diciamo subito che i 2 milioni per i manager di vertice sono fatti da circa 800 mila di stipendio fisso e 1,2 milioni di bonus variabile + benefit, che dipendono esclusivamente dai risultati conseguiti. Quindi, il rapporto più realistico sulla retribuzione certa è di “solo” 14 volte più grande. Aggiungiamo, inoltre, che stiamo confrontando gli stipendi più alti in assoluto del mercato (le multinazionali giganti) contro una media di dipendenti che, invece, rispecchia molto di più la realtà italiana. In sostanza parliamo di un sparuto club di qualche decina di nomi. Se poi allargassimo il campione di aziende prese in considerazione, il rapporto scenderebbe ancora. La mia stima personale in base all’esperienza e su un universo più esteso, è che il rapporto può oscillare intorno a 10 volte, o 10 anni come dice l’articolo in modo giornalistico.

In un sistema liberale e di stampo capitalistico (parola un po’ stantia da anni ’70, che evoca immediatamente il concetto di contrapposizione: infatti dovremmo parlare di neo-capitalismo, comprendendo la moderna vocazione a privilegiare più interessi in gioco), non c’è niente di così particolarmente strano. Chi si assume più oneri e anche responsabilità legali stringenti è corretto che prenda di più, nessuno lo può contestare, solo in un sistema prettamente comunista non è previsto.

Il vero punto della discussione si deve spostare più sull’effettivo merito e sull’etica di chi si siede nelle poltrone che contano, nella famosa stanza dei bottoni. Sono davvero degni di tanti emolumenti, i risultati che portano sono solidi e duraturi, o magari sono frutto di tagli dolorosi che trasformano velocemente aziende e destini di persone per sempre? Come sono arrivati così in alto?

Questa sono le domande chiave, e non bastano i numeri delle trimestrali o le quotazioni di borsa che schizzano per dimostrare il valore dei re mida delle aziende. Purtroppo non è così in molto casi, e abbiamo fresche testimonianze sul fatto che la regola da applicare al contrario, in caso di gravi fallimenti, non scatta quasi mai. Tutt’al più assistiamo a licenziamenti in tronco (accompagnati comunque da scivoli dorati) e a riapparizioni fulminee degli stessi soggetti in altre aziendone, come niente fosse successo. Il sistema tende a proteggere comportamenti inaccettabili e giustificazioni che non stanno in piedi, pur di salvare la reputazione e l’immagine dell’azienda e dei sui rappresentanti.

Ecco il vero nodo da sciogliere: se ci fosse una giustizia aziendale a due vie (verso l’alto e verso il basso), accetteremmo di più questo tipo di classifiche e le grandi differenze di trattamenti. Il bravissimo guadagna tantissimo, il brocchissimo guadagna pochissino, una regola abbastanza elementare. Eppure nessuno la applica mai.

Cito due esempi. Il caso Autostrade, la cui inchiesta ufficiale si è appena conclusa e i cui sviluppi seguiremo da vicino. E’ già diventato un riferimento negativo di malagestione pre-post tragedia, con le 43 vittime del Ponte Morandi. Ricordo solo il dettaglio che una tranche milionaria di buonuscita è stata riconosciuta comunque all’amministratore delegato Castellucci. Poi per fortuna la proprietà è corsa a bloccare le altre.

L’altro caso è ThyssenKrupp di Torino, con incriminazione e carcerazione dei vertici aziendali per la morte degli otto operai nell’incendio (oena che non si è potuta applicare ai due top manager, perché si sono rifugiati all’estero presso la casamadre, dove guarda caso c’è una legislazione diversa che li protegge).

Questa la vera morale della storia: finché le aziende non creeranno un vero codice etico da applicare inflessibilmente nelle situazioni acclarate di comportamenti irresponsabili dei propri rappresentanti, chiunque potrà criticare il sistema, e ci sentiremo autorizzati a commentare sarcasticamente il prossimo titolo di giornale sulla nuova classifica di turno.

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