SE IL CLOU NELLA CAPITALE DELLA CULTURA BG-BS E’ IL MUSICAL SULLA CARRA’

Ci sono vari modi d’intendere la parola “popolo”. Le parole, sappiamo, spesso cambiano di significato, attraverso i secoli. I primi Romani, ad esempio, chiamavano ‘paganus’ uno che veniva dalla campagna: poi, col Cristianesimo, il termine è passato ad indicare chi non faceva parte della ‘civitas christianorum’. Nel Medioevo, ‘ragione’ significava, a un dipresso, ‘giustizia’. Proprio nell’Età di mezzo, il termine ‘popolo’ si usava come sinonimo di cittadini o, se preferite, di borghesi. Fu nel XVIII secolo che lo snobismo illuminista cominciò a dare alla parola una valenza vagamente dispregiativa, accomunandola al concetto di ‘plebe’: il Lumpenproletariat marxista.

Così, oggi, noi, che di quei filosofi settecenteschi siamo i figli culturali, abbiamo del popolo un’idea piuttosto forzata. In un certo senso, è stata la modernità a restituire al popolo una dimensione importante, con il conio del termine “pop”. Pop, per la verità, significa tutt’altro che ‘popolare’: indica un prodotto artistico o culturale che si valuti non per il proprio valore in sé, ma in base al suo successo pubblico. In questo, l’ultimo Sanremo è stato la metafora del pop: canzoni mediocri, cantanti mediocri, intrattenitori mediocri, scene penose, ma un notevole successo di ascolti. Ecco, questo è il pop come lo intendiamo noi, oggi.

Quando sono nate le televisioni private, ovvero degli spettacoli che si autofinanziavano con la pubblicità, in molti ci siamo chiesti se non si potesse, oltre ad ammannire alla gente produzioni di bassa lega, cercare di veicolare, tra un lustrino e una tetta, qualche messaggio, se non educativo, culturale: la risposta è stata no. La tv commerciale indaga i gusti popolari e ad essi risponde, perché l’audience fa il business, oh yeah! Così, un po’ alla volta, si è affermata l’idea che fare cultura senza fare successo e, perciò, cassetta, fosse deprecabile.

E l’occasione di “Bergamo-Brescia Capitale della Cultura 2023” rappresenta un po’ l’epitome di questa concezione, un filino bottegaia, della cultura. Già anni fa, un signore, assai vicino a chi amministra Bergamo oggidì, espresse l’idea che la cultura a Bergamo fosse poco redditizia (sic): oggi, questo concetto da salumeria pare essersi definitivamente insediato, nelle menti degli organizzatori delle celebrazioni. E, dunque, largo alla cultura svaccatamente pop: ruote panoramiche, spettacoli pirotecnici, luci, musiche, bomboloni e salamelle, ricchi premi e cotillons. In carenza di pane, alla gente bastano i circenses, evidentemente. E, qua e là, qualche mostra all’Accademia Carrara, foglie di fico giusto per poter dire: abbiamo fatto anche alta cultura. Quale poi sia la ricaduta culturale o anche solo il legame con la popolazione di questa sagra strapaesana, francamente non lo colgo: se non nel fatto che la Giunta comunale bergamasca condivida quell’idea illuminista di ‘popolaccio vil’, e prontamente assecondi gli uzzoli del buzzurro indomenicato medio.

Ciliegina sulla torta, però, dovrebbe essere la produzione di un musical dedicato a Raffaella Carrà, che di una certa idea di televisione pop è stata la regina, coi suoi fagioli in bottiglia e con le carrambate strappalacrime. Lasciamo pure da parte il particolare che la Carrà con Bergamo c’entri, più o meno, come la caponata o la sagra della paranza: possibile che non si trovi di meglio, a livello culturale, che una specie di “Evita” de noantri? Don’t cry for me Città Alta? Eppure, la produzione, tanto a livello imprenditoriale che a livello artistico, può contare su persone estremamente capaci: non potevano concentrarsi su qualcosa di meno, come dire, pop? Su qualcosa che lasciasse una traccia nel tessuto culturale della città, che ne avrebbe tanto bisogno: mica tutto è redditività, in fondo. Dopo tutto, non l’ha ordinato il medico di diventare Capitale della cultura. Così sembra che l’abbia ordinato il commercialista.

Cresciuto con una certa idea di Rock Opera alla Lloyd Webber, ammetto di essere un po’ prevenuto verso questa idea del musical, ma, soprattutto, lo sono verso un cartellone che miri soltanto a fare numeri: cinquantamila in piazza, duecentomila in fila, un milione in Città Alta, quattrocento miliardi nella catena umana da Bergamo a Brescia. Insomma, ce l’ho con il concetto stesso di pop: con l’idea che una cosa funzioni se ha successo immediato, tangibile, da stadio. La cultura non è questo o, perlomeno, non è solo questo: poteva essere una grande occasione per creare, anche nelle periferie, tante minuscole sinapsi culturali. Invece, questi bonzi imperturbabili presiedono ai loro fuochi d’artificio come se stessero consegnando un Nobel: e non si accorgono di presiedere qualcosa di molto simile alla fiera del pesce fritto.

Poi, lo immagino, “Raffa in the sky” sarà un successone, with or whitout diamonds: da Broadway a Buenos Aires, riempirà i teatri.

Ma Bergamo? E Brescia? Accomunate fino a essere capitale e non capitali della cultura: una specie di supermetropoli padana, però con gli scarpinocc e i caponsei. Forse figli di Voltaire, questi qui non sono davvero nipoti di Dante. E, d’altronde, Dante era quanto di meno pop si possa immaginare. Così, alla fine, mi viene in mente soltanto una massima di un altro che pop non era, ma di cui qualcuno ancora si ricorda: odi profanum vulgus, et arceo. Ecco, appunto: arceo.

(Traduzione ovviamente superflua per chi vive nella capitale Bg-Bs della cultura, ma forse utile per i disgraziati incolti che vivono fuori: “Odio il volgo profano, e lo tengo lontano”. Lui è Orazio, ma non quello molto amico di Topolino)

Un pensiero su “SE IL CLOU NELLA CAPITALE DELLA CULTURA BG-BS E’ IL MUSICAL SULLA CARRA’

  1. Cristina Dongiovanni dice:

    La deriva populista è a tuttotondo. Ideologia, gusti, interessi, cultura. E’ triste questa tendenza a dissetare le persone (preferisco persone che popolo, è un termine più vicino ad ognuno) con la leggerezza a tutti i costi. E dopo la pandemia questa corsa al facile sollazzo è divenuta quasi un’ossessione. Ne facciamo le spese tutti i giorni, nell’educazione dei figli, nei rapporti interpersonali, nelle urne deserte. Perdiamo la consapevolezza di essere parte di un meccanismo che ha una logica utile e importante. E’ un discorso lungo fatto di valorizzazione delle risorse intellettuali di ognuno di noi. E mi fermo.

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