SE GILETTI SI SCANSA SI PUO’ PARLARE ANCHE DI GIORNALISMO

Con buona pace di influencer, blogger e fenomeni web da milioni di follower e miliardi di visualizzazioni, ancora oggi, anno 2022, è soprattutto la televisione a costruire personaggi. Cantava Enzo Jannacci: “La televisiun la g’ha na forsa de leun”. Aveva ragione: sarà invecchiato, il “leun” della televisione, incomincia a soffrire di artrite e di troppi mal di gola, eppure il re della foresta mediatica è sempre lui. E’ la televisione a tenere a balia quasi tutti i personaggi che poi ritroviamo in Rete, nei social e, alla fine del percorso obbligato, in libreria, senza dimenticare il passaggio al Salone del libro di Torino e nello studio di Fabio Fazio: un ritorno al principio, questo, in un ciclo più vizioso che vichiano.

Non necessariamente la televisione crea “mostri”, anche se, inducendo spesso il sonno della ragione, certo ne favorisce il parto. Eppure, c’è gente che fa della televisione la sua carriera e la sua vita e ne esce a testa alta. Qualcun altro, però, fa della sua carriera e della sua vita una televisione, e le cose non vanno altrettanto bene.

E’ il caso di Massimo Giletti, giornalista, poi conduttore e autore televisivo, poi di nuovo giornalista (ma sempre conduttore), oggi a La7 con “Non è l’Arena”, dopo la soppressione, da parte della Rai, de “L’Arena”, appunto. Personalmente non ho nulla contro di lui, anche se, curiosamente, ogni volta che appare sul video o sullo schermo, improvvisamente mi ricordo che ho qualcos’altro da fare, tipo vivere la mia vita il più degnamente possibile. Per quel che conosco del suo lavoro, mi sembra che i suoi riferimenti di giornalista e conduttore tv vadano cercati per esempio in Gianfranco Funari, ma anche in vecchi modelli della tv americana come Geraldo Rivera e Morton Downey Jr., ai quali il nostro, forse inconsciamente, si ispira. Modelli che, per farla breve, esigono una televisione fatta di tensione interna e di potenziale conflitto, nonché di una promessa rivelazione finale la quale non di rado alla resa dei conti si sgonfia.

Nel 1986 Geraldo Rivera tenne il pubblico americano in sospeso per due ore con il pretesto di aprire in diretta una cassaforte trovata nei sotterranei di un edificio che, negli anni Venti, aveva ospitato il quartier generale di Al Capone. Centoventi minuti di suspence al termine dei quali dalla cassaforte emerse soltanto una bottiglia vuota. Simbolo perfetto, se vogliamo, di una televisione che da Rivera a Giletti promette spesso molto più di quel mantiene. Il segreto, però, sta proprio nel promettere: il resto non conta o conta relativamente. E la promessa è la trasformazione in “materiale televisivo”, ovvero in elemento di curiosità, di tutto ciò che capita a tiro: anche se stessi e il proprio privato. Soprattutto se stessi e il proprio privato.

Peccato che il privato di ognuno confini e, anzi, si sovrapponga a quello degli altri. A Massimo Giletti, dunque, non è parso un problema affidare a un’intervista con il “Corriere della Sera” – quotidiano che in comune con La7 ha l’editore: Urbano Cairo – commenti sulla sua trascorsa relazione con l’europarlamentare del Pd Alessandra Moretti: “E’ ancora innamorata di me, forse in parte anch’io… E’ una donna che nella vita ha lottato, ha cresciuto i figli praticamente da sola. Non ho mai avuto una famiglia da Mulino Bianco, quando vedevo i suoi genitori che si amavano, ero toccato”.

Alessandra Moretti si è risentita con tanto di annuncio querela – “Non tollero intromissioni nella mia vita privata e deploro il fatto che i miei figli vengano coinvolti e citati in simili contesti giornalistici” -, al che Giletti, sempre attraverso il “Corriere”, ha presentato le sue scuse. Ma se la vicenda tra loro può dirsi conclusa, quella con il pubblico rimane aperta. E non è necessariamente una questione tra noi e Giletti, quanto tra noi consumatori più o meno attenti di televisione e la grana stessa del materiale che la tv ci propina attraverso i suoi personaggi. Per i quali – e il caso di Giletti sembra esemplare – ogni cosa è spunto per una narrativa che, scendendo sul personale, vorrebbe apparire sincera quando invece è soltanto artefatta, mielosa, scadente e, appena sotto la superficie, irrilevante.

Giletti nelle interviste e nei servizi da inviato si indigna, si commuove, cerca in tutti in modi di far scena delle sue emozioni, del suo “intimo”, così da convincerci di essere “uno di noi”, di rappresentare, con il suo, il nostro disagio. E invece proprio in questo sta la dimostrazione che non è “uno di noi”, perché noi il privato lo condividiamo con chi ci sta a cuore, perfino quando interviene la finzione delle “amicizie” social, e non con un pubblico generico. E’ l’esatto opposto – strumentalizzazione, non sincerità -, ma lo schermo della tv lo fa sembrare la stessa cosa.

La situazione familiare di Alessandra Moretti, la famiglia “non da Mulino Bianco” di Massimo Giletti hanno importanza solo per loro, tradurle altrimenti attraverso il mezzo televisivo o la carta stampata significa trasformare il tutto in una soap opera non richiesta. E neanche tanto “Beautiful”: piuttosto “Insignificantiful”, direi.

Non resta alla fine che una bottiglia vuota: dentro, nessuno ci troverà mai un messaggio.

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