SCALFARI CHIUDE IL SIPARIO SU UN TEMPO E SU UN MONDO

Il giorno della presentazione di “Repubblica” disse che il suo giornale non si sarebbe mai e poi mai occupato di sport. Vennero Brera e Clerici, Mura e Audisio, per citare i migliori in mezzo a qualche falso pennino.

Eugenio Scalfari tira il sipario di un’epoca grandiosa, dico del giornalismo, la stessa di Montanelli, Fallaci, Pansa e Biagi, cronisti, direttori, inviati, gente di marciapiede e di salotto, narratori astuti di un’Italia e di un mondo che era lontano e che diventava vicino di casa.

Scalfari passa alla storia per aver fondato il quotidiano della sinistra moderna, non più la favola dell’”Unità”, nemmeno, ovviamente, i vari fogli di estrema. Aveva intuito che dopo il “Corriere della Sera” poteva esserci altro, per i lettori e per gli elettori. Avendo frequentato tutti i partiti, dal fascismo nel senso vero a tutto quello che venne poi, liberali e repubblicani e socialisti e comunisti e radicali, un uomo quattro-stagioni come la pizza ma con ingredienti genuini, belli freschi al tempo, ebbe grandi intuizioni, a parte i cronisti di sport prigionieri di un ufficetto quattro per quattro in fondo al corridoio, di fianco ai dimafonisti, tanto per significare io so’ io e voi nun siete un c…, perché l’Eugenio era un marchese del Grillo del casato Olivetti.

Ci fu un tempo in cui il capo dello Stato portava un cognome simile, però al singolare, spesso si cadeva in errore ma il plurale restituiva la verità. Scalfari aveva l’identikit del saggio, la barba, l’altezza, il tono austero della voce con un timbro che pareva venire giù dal cielo eppure lo chiamavano Barbapapà. L’imitazione by Paolo Guzzanti (che fu tra i suoi) è irresistibile, l’Eugenio ha parlato con tutti, ha dialogato con il pontefice ultimo però attribuendogli parole mai pronunciate, c’è chi può e chi non può, è stato tentato di intervistare Dio che, nel caso, avrebbe avuto bisogno di un apostrofo dopo la consonante, per meglio confondere le parti.

Leggo già fiumi di memorie a Lui dedicate, sono asterischi rispetto alle lenzuolate che il Direttore riservava ai lettori in certi editoriali che sapeva come cominciavano ma mai finivano, anche con alcuni scarabocchi storici e letterari, gli apostoli erano tredici, per dire.

Gli hanno appiccicato l’etichetta di intellettuale amato dal popolo, immagine capalbiese che piace tanto e non dice nulla, anzi provoca pruriti proprio tra le file del popolo, quello vero. Montanelli disse che i lettori di “Repubblica” esibivano il foglio appena acquistato mentre quelli de “Il Giornale Nuovo” lo nascondevano sotto il cappotto. La moda della gauche caviar trovava le migliori conferme nelle pagine del quotidiano di Piazza Indipendenza, Caracciolo faceva marameo ai parenti Agnelli prigionieri de “la Stampa” detta “la Bisiarda” dall’altro popolo, quello degli operai della Fiatte.

“Repubblica” no, era il quotidiano di tutti, centro e sinistra e pure alcuni di destra che ne avevano intuito lo spessore. La “Repubblica” di oggi nulla ha a che fare con quella voluta da Scalfari e poi smarrita anche con l’ingegnere De Benedetti, la morte del Direttore segna l’epilogo di quell’avventura che però si era già conclusa, in fondo, a ripensarci bene, “Repubblica” e Scalfari erano un ossimoro, infatti il Direttore ne fu il monarca, il re, il sovrano assoluto, gestendo l’arena popolata dai birignao di quel pensiero debole che invece passa per unico, esclusivo, depositario della verità e della morale.

Ha vissuto la sua grande bellezza divertendosi con un giornale che è cresciuto oltre ogni previsione per poi fare i conti, non soltanto economici, con una realtà cambiata, violentata, confusa e confusionaria, nella politica, del senso sociale, nell’economia ormai soltanto finanza.

Lascia traccia netta e lunghissima. Evito le genuflessioni tipiche di questo Paese che abbisogna sempre di lavarsi la coscienza e la bocca in tempo di funerale e sepoltura. Suo padre Pietro, calabrese di nascita, pubblicò, a proprie spese, un libro che porta il titolo “I morti vivono”. Aveva previsto tutto.

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