RUFFINI, IL CLOWN CHE PIANGE DENTRO: ECCO IL MIO VIAGGIO NEL MONDO TERRIBILE E LIRICO DELL’ALZHEIMER

Le luci in sala si riaccendono, molti occhi brillano un po’ di più e qualcuno ha il mento che trema. Silenzio, un lungo silenzio. Poi partono le timide domande.

Che cosa abbia spinto il clown di tanti film sganascioni a liberare il regista delicato e sensibile non è nemmeno il caso di chiederlo. Si gratta il mento, vaga un attimo col pensiero. Quasi balbetta. Si ripete egli stesso la domanda: “Perchè un film, un docufilm sull’Alzheimer?”. La risposta alla fine arriva aperta e vaga, del genere “e perché no?”.

Già, perchè no un film così lieve e profondo sulla malattia subdola e crudele, che fa assentare dalla vita un milione di italiani, ormai ex-italiani incapaci di sentire quale sia la loro nazionalità, ma prima ancora chi siano, dove siano, cosa siano, persi in un vagare indistinto, iniziato riponendo qualche vestito nel frigo e mettendo a scaldare sul fuoco un piatto di plastica, fino al commiato supremo e irreparabile, chiedendo chi sei a chi hanno amato perdutamente fino al giorno prima.

Perchè sì, questa la risposta che viene spontanea a tutti, perchè un film così è doveroso e salutare, perchè nell’epoca che è riuscita nell’impresa di trasformare il reality nel massimo del finto e del vacuo, finalmente si torna al reality realmente reale, fuori, attorno a noi, dentro mille case, dove la vita non è più vita e soltanto l’amore di chi subisce la frana continua a lottare per trattenere qualcosa, almeno qualcosa di ciò che era e di ciò che non tornerà più indietro, ormai dissolto in un nulla irraggiungibile e immodificabile.

Quale che sia la pulsione iniziale, conta il risultato: Paolo Ruffini, che molte volte nei suoi film fa piegare in due dalle risate, con “PerdutaMente” fa piegare in due dalla commozione. E’ successo alla presentazione nella sede della valorosa Fondazione Polli Stoppani, che ha sostenuto l’avventura, questa come altre fondamentali nell’universo della sofferenza e del bisogno.

Il film ha un attore professionista, Ruffini, in viaggio nell’Italia dell’Alzheimer, dentro le case di storie magnifiche e terribili, e poi ha tanti mattatori che recitano a braccio, fuori trama, senza spartito, liberamente vagando nel loro mondo oscuro e remoto. Sono loro, i malati, a tenere in piedi il capolavoro. Con quello che dicono, con quello che non dicono, ma prima ancora con quegli sguardi bambini del candore assoluto, quello sguardo talmente candido da essere ormai neutro, incontaminato, incorruttibile.

Ruffini non ci mette sopra niente, non carica nulla di superfluo, e dopo tutto il suo talento sta proprio qui, in un rispetto e in una sensibilità che lasciano raccontare la realtà, né più né meno, facendosi coinvolgere certo, ma restando sempre un centimetro fuori dal centro.

L’alchimia di queste operazioni non è mai facile, il dosaggio è tutto. Qualsiasi torta ha bisogno di zucchero, ma troppo zucchero rovina qualsiasi torta. Se Ruffini sia riuscito a toccare tutti, come ha toccato noi del primo assaggio, lo capiremo da qui all’autunno, quando il film entrerà nei circuiti Rai (“Spero non proprio in quarta serata su Rai5”, implora il clown) e Sky. I tempi sono particolari, sono i tempi dell’evasione e della leggerezza, perchè ci siamo guadagnati il lasciapassare al futilismo con le dure prove dei lock-down. Dunque, la sola idea di re-immergersi per un’ora nella sofferenza, di chi è malato e di chi lo cura tenendolo per mano, può essere un invito da rispedire al mittente, per quanto abile e benintenzionato sia Ruffini. Però, però. Sarebbe il caso, anche nei tempi del liberi tutti e del diritto al trullalero, che non perdessimo comunque di vista certe svolte della vita, certe aree di dolore, anche solo per comprendere una certa differenza di fortune, una certa gerarchia delle cose; “a forza di conoscere queste storie – conferma proprio Paolo – non ho potuto non pensare a quelli che durante il lock-down denunciavano la durezza di non poter portare fuori il cane”.

Ciascuno, davanti ai drammi della vita, guarda con lo sguardo che si ritrova. Chi ha occhi, soprattutto anima e cuore, in questo film vedrà certo il dolore e l’angoscia, ma neppure volendo potrà scansare l’immensità dell’amore che ancora una volta batte qualsiasi tormento. Quanto meno, lo abbatte, fino a renderlo persino teneramente sopportabile.

Basta così. Per quanto mi riguarda, “PerdutaMente” non ha bisogno di altre parole. Posso solo invitare le persone di buona volontà a vederselo, serenaMente e liberaMente, perchè di certo aggiunge qualcosa.

Come scrive Tolstoj, i vivi vanno ai funerali per consolarsi, nella convinzione inconscia e inconfessabile che “è toccato a lui, poveraccio, comunque a me non tocca”. Anche l’Alzheimer funziona un po’ così: sembra innegabilmente che debba toccare agli altri.

Ma chi ce l’ha dentro casa certamente comprenderà cosa Ruffini intende dire. Chi non ce l’ha, comunque potrà convincersi che fuori dalla porta l’Alzheimer c’è sempre, ovunque, come un vicino garbato e discreto, ma pronto un giorno qualsiasi a bussare, facendo un fracasso infernale, senza più alcuna possibilità di buttarlo fuori.

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