RONALDO SI SENTE IN GABBIA: E PROVARE A KABUL?

Per l’educazione ricevuta, per cultura, ma anche per coscienza propria, il rispetto verso le storie degli uomini ha su di me il sopravvento, sempre, nascendo assai prima del giudizio. In fondo, chi siamo noi?

Ho letto di vite irrimediabilmente perdute sin dall’infanzia (“La vita è altrove”, Milan Kundera, “I miei luoghi oscuri”, James Ellroy) e di esistenze contro le quali i protagonisti hanno combattuto strenuamente con il miraggio della redenzione (“Come una bestia feroce”, Edward Bunker, un capolavoro). A volte riuscendoci, nella maggior parte dei casi no. Storie di famiglie agiate e influenti come i Kennedy e gli Agnelli, devastate da lutti e sofferenze che conducono sistematicamente a coni d’ombra di solitudine, alla riflessione spontanea sull’effimera scala gerarchica terrena, in cui ricchi e potenti diventano per la storia sempre più famosi e celebrati dei santi e degli eroi.

La natura umana, la venerazione pagana sgorga dalla nostra indole ammaliata da influencer di tutte le epoche, portandoci regolarmente ad ammirare i giganti più delle formiche. Quale che sia la loro essenza. Arrivo persino a capire il disagio dei ricchi e famosi imprigionati lussuosamente nel loro perenne lockdown, perché di regina Elisabetta che prende la metropolitana come una persona qualsiasi ce n’è solo una e nell’unico Paese in cui nessuno (a parte Mister Bean) la fermerebbe mai per un selfie.

Ne conosco, ne frequento tanti di questi ricchi e molto, molto famosi, e avverto la loro insofferenza verso l’assedio al bar, al ristorante, per strada. Luoghi dove peraltro normalmente non vanno, non ci vanno più. Nelle loro interviste, queste icone dedicano spesso un passaggio alla loro condizione avulsa dall’umanità comune, ma si fermano lì, accendendo subito dopo l’occhio di bue su quanto hanno in più rispetto a tutti e che tutti, tutti gli altri infatti non hanno. Non dimenticano nelle loro parole la gratitudine verso il talento e la fortuna che si sono mescolate in una pozione magica, rendendo tale la loro quotidianità.

CR7, al secolo Cristiano Ronaldo, ha fatto un’eccezione. In un’intervista al “Daily Mail” si è concentrato solo sulle privazioni, sui dettagli amari che costellano i giorni di un fenomenale asso dello sport e di un miliardario dagli zeri illimitati dopo la prima cifra. Frasi toccanti in uno sfogo lacerante, povero diavolo: “Pagherei per riavere la mia privacy. Sei ricco, hai soldi, macchine, case, ma questo non è tutto: credimi, essere troppo famoso non va bene. Sai quante volte sono andato al parco con i miei figli negli ultimi anni? Zero. Questo è il duro prezzo da pagare: se vado al parco con i miei bambini o al bar con gli amici, ma non faccio più nulla di queste cose, arrivano immediatamente moltissime persone e mia moglie, i bambini, i miei amici, diventano nervosi. Non si sentono a loro agio con me. MI sento come fossi in una gabbia perenne, ma è troppo tardi per cambiare tutto questo. Essere Ronaldo è noioso. Quando iniziano la notorietà, la ricchezza, le vittorie, è tutto bello, ma dopo molti anni guardi la vita in un modo diverso. Vorrei un po’ di privacy, ma non ho più privacy”.

Il parco. Forse ne ha uno in ogni casa. Il bar. Forse ne ha più d’uno in ogni casa. La gabbia. Forse non sa che ci stiamo dentro tutti, impegnati nel cocciuto tentativo di evadere, fino a farla diventare un’ossessione. La noia. Non oso immaginare come sia più estesa e profonda della mia, della nostra. Del tran-tran di bollette, farmacie, ragazze che ci lasciano, il lavoro che non appaga, il traffico persino. E la privacy, naturalmente. Quella che ci violano ogni giorno i call-center, l’Agenzia delle entrate, le banche, ora perfino la sanità. Costretti a esibire la salute per una mera necessità di gregge, di convivenza, di difesa: hai detto niente.

Leggendo l’intervista a CR7, impegnatissimo nel sociale e autore anche di gesti nobilissimi verso il prossimo, mi sono sorpreso come non si sia morso la lingua. Come non abbia pensato di fermarsi a un breve passaggio per poi tirare oltre. Perché mano a mano che leggevo il suo pianto accorato, inevitabilmente mi sono venuti in mente Kabul, attività e impieghi naufragati causa Covid, l’Africa che continua a non bere e morire, non mangiare e morire, l’India dove – mi ha raccontato in questi giorni un amico indiano – il Coronoavirus sta ancora decimando città, regioni intere.

Tornato alla base da questi qualunquismi pindarici, mi è bastato ripensare a uno di quei miei libri dove è narrato – appunto – che la vita è altrove, caro Ronaldo: tu non lo sai perché ti ci tengono lontano. E non sai cosa ti perdi, ma questo non lo hai detto.

 

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